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 2010  settembre 06 Lunedì calendario

Rio invita i turisti nelle favelas - A leggerlo così è il tipico nome di un tipico tour proposto da un’agenzia di viaggi

Rio invita i turisti nelle favelas - A leggerlo così è il tipico nome di un tipico tour proposto da un’agenzia di viaggi. «Rio Top Tour» però è molto di più. È diventato il nuovo passaporto che il Presidente brasiliano Lula, pronto a cedere il proprio posto alle elezioni del prossimo ottobre, vuole lasciare al suo Paese per fronteggiare a testa alta alcune scadenze importanti. Dalla Coppa del mondo del 2014 alle Olimpiadi 2016. E così perché non scegliere la città simbolo del Paese del Samba, Rio appunto, e rompere uno dei tabù che più pesano sull’immagine che ha nel mondo, ovvero violenza e narcotraffico? Dopo l’espulsione del narcotraffico armato da una quindicina di favelas di Rio grazie anche alla presenza delle nuove unità della Polizia cosidetta «Pacificatrice» (le UPP) che stanno riuscendo a mantenere il controllo su queste comunità senza usare il linguaggio della violenza, adesso secondo il governo di Lula sembra davvero essere arrivato il momento di mostrare la faccia più emotiva e genuina della città. Il progetto Rio Top Tour - che è stato inaugurato per il momento solo nella favela di Santa Marta - non solo porta turisti brasiliani ma soprattutto stranieri in favela ma esige che siano gli stessi locali che le abitano a fare da guida. Nel caso di Santa Marta, ad esempio, la grande attrazione - oltre alla vista paradisiaca, come tutte le favelas di Rio anche questa sorge su un morro, cioè una collina da cui la visuale è mozzafiato - sarà la visita ai punti, stradine e case scelti a suo tempo dalla popstar Micheal Jackson e dal regista afroamericano Spike Lee per girare un celebre videoclip. Il che significa permettere al mondo di vedere il Brasile realmente dal di dentro e agli abitanti delle favelas di affrancarsi dal loro destino. Ai residenti verranno infatti offerti dei corsi professionali per lavorare nel turismo permettendo a molti di potersi inventare un lavoro nuovo e dignitoso, fuori dal raggio d’azione dei narcos. Non mancano ovviamente le polemiche. Molti temono si tratti solo di un’operazione di facciata, un bel lifting per non arrivare impreparati agli appuntamenti sportivi su cui si concentra l’attenzione mondiale. E per alcuni sociologi come il brasiliano Ignacio Cano non tutto del progetto risulterebbe così chiaro. Per esempio, «è vero - sostiene il sociologo, tra i massimi esperti di violenza urbana - che la polizia pacificatrice non usa più pistole e fucili ma bisogna dire che sono state sostituite con manganelli e gas irritanti. Insomma, alla fine l’ombra della violenza c’è ancora». Ma il governatore di Rio Sérgio Cabral ci tiene a sottolineare come tutto questo non sia che l’inizio «in una città che a causa dei narcos continua a fare più morti ammazzati di quelli della Striscia di Gaza». Basta, infatti, cambiare favela (in totale nella sola Rio sono 1020) per vedere come lo scenario risulti completamente diverso. A La Rocinha, lo slum più grande del mondo con 150 mila abitanti, a ridosso dell’ampia baia, i bambini quando non giocano a fare la guerra, la guerra la fanno per davvero. Gabriel, 8 anni, è sempre con il fucile in mano per strada, un fucile di plastica, un giocattolo. Ma qui il confine è sempre labile, tra gioco e realtà, tra pace e guerra. E guerra vuol dire narcotraffico, microcriminalità, uso di droghe, tra cui la più temuta e anche la più diffusa: il crack. La cartolina di Rio è anche questa, non solo Copacabana e le mulatte. Più volte è venuto in città negli ultimi mesi anche l’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani per cercare di dare una mano come consulente del governatore, nella lunga e quasi epica impresa di ripulire la città da violenza e droga. E si vocifera già che per la «pax olimpica», come accadde a San Paolo dopo gli scontri tremendi del maggio 2006 in cui morirono centinaia di persone in una settimana, bisognerà fare un accordo tra governo locale e fazioni criminali. Che di scherzare non scherzano. Basti pensare a quanto accaduto lo scorso ottobre. A neanche due settimane dalla vittoria della candidatura di Rio per le Olimpiadi, in piena città tra una favela e l’altra, non lontano dallo stadio del Maracanà dove i giochi si apriranno, si è scritta una delle pagine più brutte della storia recente della guerriglia urbana brasiliana. 13 morti, tra cui due poliziotti tirati giù insieme al loro elicottero con armi sofisticatissime, in dotazione all’esercito israeliano. Oppure basti pensare alle centinaia di persone che ogni anno muoiono vittime di «balas perdidas», proiettili vaganti che colpiscono all’impazzata innocenti che hanno la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. E poi i desaparecidos, gli scomparsi, migliaia l’anno nella «cidade maravilhosa». «Io però la favela non la lascerei mai» spiega Júlia, 20 anni, cameriera nei quartieri ricchi della città. E questa è la grande contraddizione di Rio. I «morros», le colline su cui le favelas negli anni sono cresciute a macchia d’olio, sono diventati dei micromondi da cui chi vi nasce fa davvero fatica a staccarsi. È anche questo che il Brasile adesso vuole mostrare al mondo.