Marcello Sorgi, La Stampa 6/9/2010, pagina 1, 6 settembre 2010
La scelta di uscire dal recinto - Diciamo la verità, è arduo credere che, dopo il discorso di Fini, il «patto di legislatura» che il presidente della Camera ha proposto ieri a Berlusconi, parlando ormai da leader del nuovo partito «Futuro e libertà», possa davvero realizzarsi
La scelta di uscire dal recinto - Diciamo la verità, è arduo credere che, dopo il discorso di Fini, il «patto di legislatura» che il presidente della Camera ha proposto ieri a Berlusconi, parlando ormai da leader del nuovo partito «Futuro e libertà», possa davvero realizzarsi. Anche se nei prossimi giorni, quando il presidente del Consiglio si presenterà alla Camera a chiedere la fiducia, i finiani gliela daranno, la pietra tombale posta a Mirabello, su un’alleanza che durava da sedici anni, difficilmente potrà essere rimossa. Non solo per le accuse, e in qualche caso gli insulti (dallo «stalinismo» alla «lapidazione islamica»), che se ripetuti pubblicamente in una prossima campagna elettorale non sarebbero compatibili con nessun tipo di coalizione. Ma anche perché - e qui sta la sostanza politica dell’intervento -, ai famosi cinque punti berlusconiani mirati a verificare l’esistenza in vita della maggioranza, Fini ne ha aggiunto un sesto, la riforma elettorale, che avrà fatto sobbalzare tutti gli osservatori del governo e gioire gli esponenti dell’opposizione. Non è un mistero infatti che - sia pure in una Babele di proposte che mette insieme confusamente un po’ tutti i sistemi elettorali europei, per non dire del mondo -, esista in Parlamento una maggioranza numerica assai variegata favorevole al cambio dell’attuale legge elettorale, il cosiddetto Porcellum, che assegna un consistente premio in seggi alla Camera e al Senato a chi raccoglie i voti di appena più di un quarto degli elettori. Una minoranza che viene trasformata in maggioranza, appunto, con l’aggravio della scelta di deputati e senatori sottratta agli elettori e riservata in realtà ai capipartito grazie a liste bloccate di candidati. E’ opinione diffusa anche all’interno di quel che resta del Pdl che Berlusconi, pur godendo ancora di un consenso molto forte nell’opinione pubblica, già con questa legge difficilmente riuscirebbe a ottenere, oltre che alla Camera, la maggioranza al Senato, dove il premio viene assegnato su base regionale. Peggio ancora, nel caso di una riforma che abolisse il premio e all’uscita da una legislatura fallimentare come questa, che lo vedrebbero molto penalizzato. L’offerta di votare i cinque punti (emendandoli, naturalmente, e riaprendo il dibattito su tutte le questioni più spinose, a cominciare da giustizia, federalismo e misure per l’immigrazione), lavorando nel frattempo per il sesto, la riforma elettorale, è politicamente inaccettabile per Berlusconi. Fini lo sa benissimo e se ne ha fatto un punto fondamentale dell’intervento di Mirabello è perché vuol lasciare a Berlusconi l’onere della rottura. Tra l’altro agitandogli davanti il fantasma di un governo d’emergenza, che anche in caso di una legislatura destinata a concludersi prima della scadenza naturale, si insedi solo per varare nuove norme che consentano ai cittadini di votare in un altro modo. Fuori da questo incastro, che inserisce un’ulteriore difficoltà in una situazione già molto complicata, Fini ha svolto abilmente il suo discorso, duro e conciliante insieme. Ha parlato da leader, come ama fare, da uomo liberato ormai dalle remore di questo anno e mezzo di sofferente convivenza con il suo ex alleato, e s’è rivolto a tutti quelli, da Tremonti a Casini a Bersani, che per una ragione o per l’altra guardano da tempo al dopo-Berlusconi. Ma pur cercando di ancorarsi stabilmente nel campo da cui proviene, e negando ogni ipotesi di ribaltone o di accordi trasversali con l’opposizione, Fini ha operato cautamente uno spostamento del suo partito, dalla destra alla sinistra del centrodestra. Non diversamente infatti possono essere interpretati i frequenti appelli all’opposizione, l’attenzione della Costituzione e più in generale alla legalità, i richiami al lavoro e al sociale, alla difesa economica dei giovani e degli insegnanti, oltre che dei poliziotti e carabinieri, declinate con un linguaggio («A Mangano preferiamo Saviano», dicevano gli striscioni di Mirabello) più familiare per le orecchie di centrosinistra, già accarezzate nei giorni scorsi dal ministro dell’Economia, e perfino per quelle del «popolo viola», che non per le agguerrite falangi berlusconiane avvezze a gridare «Silvio, Silvio!». In questo senso, Fini è uscito una volta e per tutte dal solco, che gli è sempre stato stretto, del recinto pidiellino, e ha salutato con gelida sprezzatura il plebiscitario «partito del predellino», che pure aveva contribuito a fondare. Assodato che il governo, da ieri, è ripiombato nell’incertezza, ad onta della fiducia che già in settimana potrebbe incassare, è ancora presto per dire che ne sarà, a questo punto, della rivoluzione berlusconiana. Una rivoluzione purtroppo inconcludente, che alla fine dei lunghi anni in cui s’è svolta ha portato il Paese nello stallo. E tuttavia, irrinunciabile per Berlusconi e la sua gente. L’alternativa che si prepara non è chiara. C’è pure la possibilità che, da ferma com’è, l’Italia venga spinta a una marcia indietro.