ANDREA MALAGUTI, La Stampa 5/9/2010, pagina 29, 5 settembre 2010
Perché mai ce l’ho fatta solo io? - Un anno dopo la storia di Bahia Bakari è diventata un libro
Perché mai ce l’ho fatta solo io? - Un anno dopo la storia di Bahia Bakari è diventata un libro. Nell’edizione inglese il volto della ragazza, che oggi ha 14 anni e vive a Parigi, consegna agli occhi, scuri, lontani, per sempre choccati, il compito di restituire la profondità di un dolore che non se ne può andare e che nei sopravvissuti, per una impietosa legge della natura, finisce per sommarsi al senso di colpa. «Ancora adesso non riesco a capire perché sono rimasta viva solo io». Non esiste un perché. Il 30 giugno del 2009 Bahia era uno dei 152 passeggeri della Yemenia Airways diretto alle Gran Comore. Seduta di fianco a sua madre, a pochi minuti dall’atterraggio, teneva la faccia schiacciata sul vetro perché le piaceva vedere l’aereo scendere tra le nuvole. «All’improvviso le luci si sono spente e i passeggeri si sono messi a urlare. Solo la mia mamma sembrava serena e mi passava una mano tra i capelli. Le hostess giuravano che non c’era problema. "Tranquilli, è solo il cattivo tempo”. Ricordo di avere sentito una scossa elettrica, poi molte esplosioni, finché mi sono trovata in fondo al mare. Avevo i polmoni pieni di acqua, ma sono riuscita a risalire. Non sentivo dolore, solo un po’ di freddo». Il mare è grosso e Bahia si aggrappa a un detrito, in lontananza vede la terra, anche se l’occhio sinistro le sembra in fiamme. Si addormenta. «Prima di chiudere gli occhi ho pensato: la mamma sarà furiosa con me. Non credevo che si potesse essere risucchiati fuori da un aereo. Ora lei mi starà aspettando e sarà arrabbiata». Quando si risveglia è nel letto di un ospedale, una dottoressa, una psicologa, le dice: «Ti verranno i sensi di colpa, ma tu sappi sempre che non hai fatto nulla di male. Nulla». Bahia non capisce. Le escono solo quattro parole. «Dov’è la mamma?». L’eco della risposta le rimbomba ancora nella testa. «La mamma non ce l’ha fatta». Non ce l’aveva fatta nessuno, tranne lei. Che da quel giorno, sul computer, cerca storie come la sua, unica sopravvissuta all’inferno. Non sono tante, ma un po’ esistono. Miracoli o condanne, a seconda da che parte la si guardi. Marcus Luttrell era un soldato in Afghanistan e assieme a 19 compagni stava dando la caccia a un capo talebano. Una sera, in una grotta, vengono sorpresi da tre pastori di capre. Dovrebbero ucciderli per proteggersi, decidono di lasciarli andare. La mattina dopo si rimettono in cammino, ma vengono assaliti alle spalle. «Le pallottole arrivavano da tutte le parti. Ho cominciato a saltare di qua e di là. Vedevo i miei uomini cadere uno dopo l’altro, ma io sono arrivato fino alla montagna, solo. Ho camminato per un giorno e mezzo, poi mi hanno recuperato. Non ero né più abile né più in forma degli altri ragazzi. Non riesco a farmene una ragione. Non capisco, non capisco davvvero». L’unico rimasto. Ha un suono terribile. Lo stesso che vibra incessantemente nel cervello di di Nick Schuyler, insegnante di ginnastica e personal trainer che il 28 febbraio del 2009 decide di andare a pescare in barca con tre amici. Alle tre del pomeriggio il mare si alza, li scaraventa nell’acqua gelata e i quattro rimangono aggrappati allo scafo. «Eravamo forti come tori, ma solo io sono ancora qui. Marquis Cooper ha ceduto dopo 18 ore, Corey Smith dopo 20. Il mio amico Will Bleakley, che si era aggregato all’ultimo momento, dopo 25. Risucchiati in profondità, morti assiderati sotto i miei occhi. Io ho resistito altre 18 ore, pensando che non volevo che mia madre piangesse al mio funerale. Una barca arrivata non so da dove mi ha riportato nel mondo dei vivi e ora questa domanda mi fa esplodere le tempie: perché soltanto io?».