Luca Ricolfi, La Stampa 5/9/2010, pagina 1, 5 settembre 2010
La nuova sfida di Chiamparino - Un ultimo, accorato, messaggio al Pd, e forse un’autocandidatura al comando del centro-sinistra
La nuova sfida di Chiamparino - Un ultimo, accorato, messaggio al Pd, e forse un’autocandidatura al comando del centro-sinistra. Così definirei «La sfida» di Sergio Chiamparino, il libro che Einaudi manda in libreria nei prossimi giorni. Un libro-intervista bello, incisivo, pieno di idee politicamente scorrette enunciate in un linguaggio politicamente corretto. Vediamole, queste idee politicamente scorrette (ma secondo me del tutto ragionevoli) che il sindaco di Torino ha esposto nel suo libro, rispondendo a una raffica di domande di Paolo Griseri. L’idea più importante mi sembra questa: «La sinistra, almeno in Italia, è credibile per difendere l’esistente, assai meno come agente di cambiamento. È paradossale ma è così. Proviamo. La difesa della Costituzione, la difesa della magistratura, la difesa dei diritti, la difesa dello Stato sociale, la difesa della scuola e via difendendo. Tutto (o quasi) giusto, tutto necessario, ma può essere credibile un partito che si propone sostanzialmente di lasciare le cose come stanno, perché questo alla fine è il messaggio che passa?». I due snodi Al centro di questa difesa dell’esistente si trova, naturalmente, lo Stato sociale, quello che Chiamparino chiama «il giardino del welfare». Un giardino in cui sono ammessi i garantiti, i cosiddetti insider: dipendenti pubblici, pensionati, addetti delle grandi e medie imprese. E da cui sono più o meno esclusi i non garantiti, i cosiddetti outsider: giovani, donne, operai e impiegati delle piccole aziende, lavoratori autonomi, partite Iva. Di qui due problemi cruciali. Da quando la crescita si è bloccata, la difesa dei diritti dei garantiti non può che avvenire a scapito dei non garantiti. E poiché il Pd - il partito di Chiamparino - è il partito in cui sono confluite le forze politiche che hanno costruito il giardino, ossia il Pci e la Dc, il Pd è naturalmente, geneticamente mi verrebbe da dire, un partito conservatore. Un partito il cui istinto è salvare il giardino e i suoi occupanti, che infatti hanno capito l’antifona e lo votano proprio per questo. Da questa diagnosi di fondo, che nel libro si focalizza sull’Italia ma in realtà si potrebbe estendere a buona parte della sinistra in Europa, si dipanano varie conseguenze. La più importante, difficile da digerire per il pubblico di sinistra, è che oggi la destra è l’unica forza del cambiamento. Un cambiamento in parte illusorio, in parte non condivisibile, ma comunque un cambiamento. Il problema del Pd, secondo il sindaco di Torino, sarebbe quello di offrire un’altra idea di cambiamento, altre soluzioni, altre priorità, abbandonando il ruolo di guardiano dell’esistente che, in nome della guerra a Berlusconi, esso si è ritagliato in questi anni. Il nucleo forte di questa idea alternativa di cambiamento, per come l’ho capita io, è una sorta di ossimoro politico: un comunitarismo aperto, o se preferite un leghismo educato. Accettare le buone ragioni della Lega, ma depurandole completamente dei loro accenti xenofobi, intolleranti, difensivi. Fare sul serio e bene il federalismo, dismettere il buonismo in materia di criminalità e immigrazione; ma al tempo stesso non temere il mondo esterno, favorire al massimo l’integrazione degli stranieri, dalla cui voglia di lavoro e di riscatto dipende il nostro stesso futuro. Stranieri su cui Chiamparino ha parole piene di stima e di ammirazione, per non dire di rimpianto: «L’immigrato è quasi sempre una persona che vuole migliorare la sua condizione di partenza, che si porta addosso l’energia e quella tensione verso il cambiamento che molti italiani non hanno più». La scossa esterna Ma come si fa a cambiare il Dna della sinistra? Come si fa a cambiare il Pd? La formula del libro, enunciata fin dall’introduzione, è «oltre il Pd per ritrovare il Pd», forse l’unica seria concessione al politichese in un libro che non sembra scritto da un politico. Proviamo a tradurre, prendendo spunto da alcuni passaggi dell’intervista. Per il sindaco di Torino l’ideale sarebbe una scossa esterna, che costringesse il partito a guardarsi allo specchio. Ma poiché le ripetute sconfitte elettorali non hanno fornito tale scossa, e anzi Bersani mette tutto il suo impegno nel nascondere la realtà, nel produrre miti di autoconsolazione, l’unica via è che - in vista delle prossime elezioni, non importa quanto anticipate - parta un confronto aspro e a tutto campo nello schieramento di sinistra. Un confronto aperto all’esterno, con idee forti, candidature vere, leader credibili, perché il primo problema della sinistra oggi è la credibilità della sua classe dirigente: «oggi si votano le facce e le persone», e «io non credo che oggi si possa sfuggire al problema di avere una figura di riferimento che ti rappresenta». Perché negli ultimi venti anni è la politica ad essere cambiata e i partiti sono ormai solo «i magazzini degli attrezzi che servono all’elaborazione politica per le facce e le persone che si candidano». Una verità che Berlusconi capì subito, e che la sinistra stenta ad accettare ancora adesso. Insomma, tornando al Pd e al suo destino, «non ci mancano le proposte concrete ma la credibilità per avanzarle. Dobbiamo trovare al nostro interno qualcuno in grado di interpretare questa esigenza di rottura nella società italiana, qualcuno capace di condurre la battaglia contro le gabbie che bloccano il nostro sistema sociale e contro l’italietta che sull’esistenza di quelle gabbie ha costruito la sua fortuna». Il vento nuovo Sul fatto che Sergio Chiamparino abbia la credibilità e le idee necessarie per questa battaglia non ho molti dubbi. È sul suo partito che sono scettico. E lo sono proprio perché la diagnosi di Chiamparino è convincente: non si può richiedere agli eredi del Pci e della Dc di andare oltre il giardino del welfare, perché sono essi stessi i giardinieri che l’hanno creato. Ma soprattutto non si può chiedere a un apparato di potere, com’è il Pd e come sono tutti i partiti, di mettersi al servizio di un leader che non ne è l’artefice, e semmai ne è la cattiva coscienza. Abbiamo visto che fine i «compagni» hanno fatto fare a Prodi, una prima volta nel 1998 e una seconda nel 2008. E sappiamo tutti qual è il destino che l’apparato del Pd ha riservato a Veltroni, che pure era stato chiamato come salvatore della patria. In breve, la mia impressione è che l’occasione che l’Italia di oggi offre ai politici che la pensano come Chiamparino non sia quella di gestire il declino del Pd, ma quella di contribuire alla nascita del «partito che non c’è»: un partito aperto e tollerante, che non demonizzi la Lega e la destra, ma offra soluzioni migliori ai problemi che esse hanno sollevato in questi anni. Se si vuole un cambiamento vero, non ci sono scorciatoie. Quando ha voluto scendere in campo, Berlusconi si è preso i suoi rischi e ha creato Forza Italia, senza cercare investiture dai partiti esistenti. Una lezione che resta valida ancora oggi, almeno per chi in politica vuole portare un vento nuovo.