Giampiero Mughini, Libero 5/9/2010, 5 settembre 2010
LA METAFISICA DEL SESSO DEL DANDY-GUERRIERO EVOLA
Alessandro Bechetti, un fotografo romano che negli anni Settanta e Ottanta con la sua macchina fotografica aveva centrato a meraviglia tanti scrittori e intellettuali che vivevano a Roma, mi ha regalato una volta una foto che era riuscito a scattare a Julius Evola sul suo letto di agonia. Evola morì due giorni dopo, l’11 giugno 1974. Stava per compiere 76 anni. Negli ultimi istanti della sua vita, agli amici e sodali che gli stavano accanto, chiese di sostenerlo per farlo stare in piedi, e guardare per l’ultima volta dalla sua finestra lo scenario del Gianicolo che emergeva lì in fondo all’orizzonte.
Nell’appartamento romano all’ultimo piano di un palazzo di Corso Vittorio Emanuele, dove non so come Bechetti fosse riuscito a infilarsi, Evola viveva da 24 anni. Paralizzato alle gambe e da solo. Nella primavera del 1945, quando si era rifugiato sotto falso nome nella Vienna su cui sventolava ancora il drappo nazista, leggenda vuole che lui decidesse di uscire a fare una passeggiata pur nel corso di un violento bombardamento aereo. L’esplosione di una bomba sollevò in aria macerie da cui Evola venne sepolto. A tutta prima era sembrato un colpo mortale, e invece sopravvisse. Solo che il suo midollo spinale era scassato per sempre, le gambe inutilizzabili. Una punizione crudele per un dandy, di cui si diceva che fosse molto ammirato dalle donne, e per un “guerriero”. Dopo due anni di peregrinazioni nelle cliniche austriache, Evola tornò in Italia. Dal 1950 si installò nell’appartamento romano di cui ho detto, che una nobildonna romana di simpatie fasciste gli aveva messo a disposizione.
Quella casa divenne la meta di un pellegrinaggio incessante da parte di giovani intellettuali di destra che smaniavano di menare le mani per prendersi una rivincita sull’antifascismo vittorioso. Ventenni che vedevano in lui un guru, il predicatore di una moralità superiore a quella “liberale” e “materialista” dei loro avversari, l’autore trentennale di libri che loro avevano imparato a memoria da quanto fornivano alla destra gli elementi di una identità orgogliosa pur nell’avvenuta sconfitta, dalla Rivolta contro il mondo moderno del 1934 a Gli uomini e le rovine del 1953, il libro nato dalla temperie degli incontri di cui ho detto.
Montavano a piedi sino a quell’appartamento Pino Rauti (giovanissimo era stato volontario nella Rsi), il futuro scrittore e giornalista Enzo Erra, Fausto Gianfranceschi (più tardi responsabile delle pagine culturali de Il Tempo), Adriano Romualdi (il più talentuoso dell’ultima leva intellettuale della destra e che nell’agosto 1973 morirà poco più che trentenne in un incidente d’auto).
Nella primavera del 1951 Rauti, Erra e Gianfranceschi vennero arrestati perché corresponsabili dell’avere messo in giro per la Roma istituzionale dei pacchetti di volantini che rivendicavano l’italianità di Trieste, e dentro i quali c’era una piccola carica che di notte esplodeva. Con loro venne arrestato Evola, accusato di essere il mandante del gruppo estremista. E siccome il tribunale non disponeva di una sedia a rotelle, Evola si presentò all’udienza in tribunale su una lettiga portata da quattro uomini. Difeso gratuitamente da un avvocato antifascista, Francesco Carnelutti, venne assolto con formula piena. Di quel gruppo di ragazzi accesissimi di risentimento contro i vincitori del 1945 lui era stato l’ispiratore morale, il capitano intellettuale dalla fiera eleganza, non certo quello che li aizzava a mettere bombette simboliche («Azioni talmente irrisorie», dirà lo stesso Evola).
Primattore del Dada
Nella sua casa romana ci sono stato anch’io, sei o sette anni dopo la sua morte. Al tempo in cui faceva da sede della Fondazione Evola. Una saletta d’ingresso cui seguivano due stanze accostate l’una all’altra. Alle pareti c’erano alcuni dei bellissimi quadri dipinti da Evola tra 1919 e 1921, quando era stato il primattore del Dada italiano. Ma non erano i dipinti originali, quelli Evola se li era venduti negli anni Sessanta, dopo che una mostra romana organizzata nel 1963 dal professor Enrico Crispolti aveva avviato la riscoperta dell’Evola pittore d’avanguardia: a quel punto Evola i suoi quadri di quarant’anni prima se li era ridipinti. C’era anche, nella seconda stanza, un tavolino d’appoggio nero e basso su cui l’Evola dadaista del 1919-1921 aveva apposto tracce e colori saettanti alla maniera dei suoi quadri coevi. Da quando molti anni fa la Fondazione Evola ha sloggiato per mancanza di fondi dall’appartamento di Corso Vittorio Emanuele, non so più che fine abbia fatto.
Nato a Roma nel 1898, lui che diverrà un campione intellettuale dei valori della Tradizione, da ventenne Evola era stato dunque un apostolo dell’avanguardia più radicale. Al tempo in cui gli erano familiari gli iconoclasti i più risoluti della cultura europea di inizio secolo, da Friedrich Nietzsche a Otto Weininger. Radicale Evola lo era in tutto, a cominciare dai modi e dalle scelte di vita. A pochi esami dalla laurea buttò via tutto e non volle più sentirne parlare. I professori di filosofia sposati e con uno stipendio li trovava ripugnanti. Per lui il pensare e il vivere dovevano essere un tutt’uno. Da avversario acerrimo dei due grandi filoni del pensiero occidentale, il cristianesimo e il “materialismo” prodotto dall’avvento dell’Illuminismo, andò a cercarsi i suoi punti d’appoggio filosofici a latitudini inusitate per la cultura italiana. Nei testi e nei linguaggi delle tradizioni religiose dell’Oriente, su cui scrisse negli anni Venti e Trenta libri di cui non so dire nulla perché di quelle longitudini non so nulla.
Dopo l’Evola poeta e pittore d’avanguardia ci fu l’Evola filosofo (quello che mirava al cuore dell’idealismo militante di Benedetto Croce e Giovanni Gentile), l’Evola esoterico, l’Evola teorico delle distinzioni e delle gerarchie razziali, un Evola che non si augurava certo Auschwitz e Treblinka, ma che arrivò comunque alla cafonaggine intellettuale di nobilitare con una sua prefazione la monnezza de I protocolli dei Savi di Sion, l’ignobile pamphlet che la polizia politica zarista s’era inventata di sana pianta e che Giovanni Preziosi aveva riedito nel 1938 sulla scia del Mussolini che s’era accodato a Hitler in fatto di discriminazioni razziali.
Mai iscritto a partiti
Evola fascista? Non lo fu mai. Mai nella sua vita era stato iscritto a un partito e mai nella sua vita aveva dato il voto a un partito. Ai suoi occhi, e mentre l’antifascismo era «nulla», il fascismo gli appariva troppo poco, troppo poco risoluto e “violento”, troppo incline al compromesso con la Chiesa cattolica. Di certo facevano di più al caso suo i nazisti. Tanto che quando Mussolini
nel settembre 1943 arrivò al Quartiere Generale del Führer dopo essere stato liberato da Otto Skorzeny, ad accoglierlo assieme ai tedeschi c’era anche Evola.
Così come non è un caso che nella primavera del 1945, quando il nazifascismo stava per essere spazzato via, lui si trovasse a Vienna. In quel frattempo aveva fatto delle porcate a favore dei nazi? Certo che no. Lui stava altrove, più in alto, rispetto alla politica di tutti i giorni. Quando più tardi, nel 1963, scriverà e pubblicherà una sorta di autobiografia, dirà che non aveva saputo nulla degli «eccessi» compiuti dai nazisti nei confronti degli ebrei. Ma limitarsi a definire «eccessi» il macello di uomini donne e bambini a milioni non era un’espressione degna di uno che per tutta la vita aveva affilato il linguaggio per farne un bisturi dell’intelligenza.
In pieni anni Sessanta, Giorgio Almirante definì Evola «il Marcuse della destra». Cambiata l’epoca culturale, all’uno e all’altro è toccata la stessa sorte. I loro libri non sono più letti, non fanno più da stemma di un’identità ideale. Capeggiato da un intellettuale raffinato quale Gianfranco de Turris, il culto di Evola e della sua opera persiste, ma in una nicchia ristretta. Ciò non toglie che i suoi libri più esemplari abbiano un loro posto nella storia della cultura italiana del Novecento, un rango riconosciuto anche da gente estranea alla destra, dallo scrittore, economista ed editorialista anticonformista Geminello Alvi all’editore antifascista Vanni Schiwiller (che osò pubblicare dei libri di Evola addirittura nei primi anni Sessanta), fino al pittore e illustratore Pablo Echaurren, più di vent’anni fa autore di una bella saga a fumetti che racconta l’avventura dell’Evola dadaista.
Contro la follia Merlin
Fra i libri di Evola il posto d’onore spetta forse a una sua opera tarda quanto geniale, Metafisica del sesso, del 1958. Da quel libro venne fecondato un libriccino di poche pagine, Sesso e libertà, curato da de Turris e pubblicato da un editore libertario quale Marcello Baraghini nel 1998 nella sua famosa collana “millelire”. Dov’è spettacolare per preveggenza un articolo di Evola del 1958, in cui diceva della “legge Merlin” quello che tanti di noi vanno ripetendo da trent’anni. Che anziché risolvere «un male», la chiusura delle case chiuse ne produsse uno peggiore.