Libero 6/9/2010, 6 settembre 2010
INTERVISTA A MANLIO CANCOGNI
La vittoria di Manlio Cancogni al premio Pen Club di Compiano fa giustamente riparlare, in questi giorni, di uno scrittore che ha attraversato il Novecento e affrontato e superato gli Anni Zero con un abbrivio invidiabile. A 94 anni, ha ricevuto quegli applausi che, un po’ assurdamente, si tributano a chi abbia la ventura di vivere a lungo. Soprattutto, però, ha elargito una lezione di ironia, che non è qualità comune a tutti i grandi vecchi delle patrie lettere. E del resto, il vero grande vantaggio dell’età è di poter parlare a ruota libera. E lui, che lo faceva già da giovane, figuriamoci adesso. Ha uno sguardo limpido, lucido, un’affabilità spontanea. «Ho una certa antipatia per i
giudici», ammette candido (o almeno così pare, perché mentre parla spesso gli occhi sono attraversati da bagliori maliziosi). «Ma forse perché gli amici di mio padre erano tutti giudici, da giovane volevano che lo diventassi anch’io, poi mia figlia ha sposato un magistrato... Mah, qualcuno lo deve pur fare, immagino. Ma anche il boia...».
Argomenti spinosi. Parliamo un po’ di lei. Da tempo ha scelto di tornare a vivere in Versilia. Perché?
«Perché in Versilia sono stato dato a balia, tutti i parenti erano lì, da piccolo era la felicità, mentre Roma era la tomba. Mi sembrava solo un grande museo. Mi sono accorto della sua bellezza quando me ne sono andato. Dirò di più: adesso Roma mi è anche simpatica».
Lei ha scritto e pubblicato molto, ha frequentato i principali scrittori e artisti del Novecento. È stato al centro della scena culturale. Nel 1973 ha vinto il premio Strega, che era ben diverso da adesso, o no?
«Ah, sì, con Allegri, gioventù, un libro che non amo affatto, un libro che mi ha preso la mano. Volevo scrivere un romanzo sulla vecchiaia, invece ho iniziato in modo grottesco, paradossale, e continuato su quel tono, un tono nel quale non mi riconosco».
Dunque crede che il premio non le spettasse? «Mi sembra che tutti in fondo tengano a distanziarsi dai premi, almeno a parole, ma non diciamolo qui, siamo a un premio...».
Ma il Pen è un antipremio, qui non si offendono, anzi. È vero che i premi bisognerebbe, come disse Flaiano, non solo non vincerli, ma soprattutto non meritarli?
«È un eccesso di sincerità».
Un suo bel libro che invece è stato trattato ingiustamente? «Parlami, dimmi qualcosa. Per me è il migliore. Anche con quello partecipai a un premio, il Bagutta, ma per vincere ci voleva l’unanimità e tre giurati si opposero per motivi personali».
Dei grandi scrittori del Novecento che ha frequentato, chi ricorda? «Alberto Moravia, che non mi piaceva come scrittore, a parte un paio di cose, come il racconto “Inverno di malato”. Però era un uomo intelligente, e anche simpatico. Anche bello. Ma aveva atteggiamenti politici falsi, in privato confidava cose diverse».
E Giorgio Bassani, suo coetaneo? «Eh, ricordo purtroppo l’ultima telefonata che mi fece. Penso che non sapesse neppure che stava chiamando me. Era in lite con la famiglia e sapeva che io lo sostenevo. All’inizio, sentendo la sua voce, pensai che stesse bene, ma poco dopo mi accorsi che non era lucido. Di lui amo molto il racconto che ha per protagonista un otorinolaringoiatra... come s’intitola... è uscito dopo le Cinque storie ferraresi... (probabilmente “Gli occhiali d’oro”, del 1958, ndr)».
È vero che ha conosciuto bene Oriana Fallaci? «Abbastanza bene. La prima volta aveva 18 anni, mi fu presentata dalla zia, aveva un’espressione scocciata, triste. Poi a Venezia, durante il processo Montesi, ci scontrammo, ma non mi ricordo più su che cosa. Lei era timida, introversa, nevrotica, e rimediava con l’aggressività. Poi mi ha telefonato a New York, quando aveva finito Un uomo.
Era convinta di aver scritto un capolavoro». Pier Paolo Pasolini? «L’ho visto tre giorni prima che l’ammazzassero. Era un uomo gentile. E il suo Ragazzi di vita mi sembrò bellissimo».
A proposito: lei ha definito spesso «melanconica» la bellezza. Perché? «Perché nel momento più acuto della sua rivelazione si sente che finirà. Per questo si accompagna sempre, inevitabilmente, a un sentimento di malinconia. Così trovo sia una cosa molto pericolosa vivere di estetica. L’estetismo si infila dappertutto. Adesso oltretutto è diventato anche di bassa lega, è un estetismo democratico». Ha vissuto a lungo negli Stati Uniti. Perché?
«Sono stato invitato, a insegnare. Mia moglie era felicissima (sono sposati da 68 anni, e lei si prende inflessibilmente cura di lui, ndr). Non sopportavo il senso d’inferiorità dell’Europa, l’antiamericanismo che suonava come una vendetta verso chi l’aveva salvata due volte». Le piace anche l’America di questi ultimi anni?
«In effetti meno, però nel mondo è ancora un Paese pilota».
Paolo Bianchi