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 2010  settembre 06 Lunedì calendario

INDRO, LA STORIA PER GLI ITALIANI

Nell’avvertenza al primo volume della sua Storia d’Italia e in quelle che precedono gli altri, Indro Montanelli riconosce l’esistenza di un legame fra quest’opera, allora appena iniziata, e le storie dei Greci e dei Romani, pubblicate qualche anno prima. Vi è quindi, secondo l’autore, una storia d’Italia che discende, con una sorta di primogenitura, dalla storia della civiltà greca e da quella dell’Impero Romano. Montanelli, beninteso, non poteva ignorare che una tale impostazione aveva suscitato in passato molte appassionate controversie storiografiche. Era certamente possibile scrivere una storia degli avvenimenti della Penisola dalla più remota antichità ai nostri giorni. Ma era altrettanto possibile scrivere una quasi bimillenaria «Storia d’Italia»?

Una tale opera presuppone l’esistenza di una entità chiamata Italia, di cui sia possibile raccontare le origini, la nascita, lo sviluppo, le fasi del declino e quelle della rinascita. Quando uno dei maggiori storici italiani della prima metà del Novecento, Gioacchino Volpe, pubblicò nel 1922 un Programma e orientamento per una «Storia d’Italia» in collaborazione, si aprì una discussione. Qualcuno sosteneva che occorresse partire dalla caduta dell’Impero Romano (la soluzione adottata da Montanelli); altri dalla fine del Settecento, quando l’invasione francese aveva creato sentimenti e attese nazionali diffusi nell’intera Penisola; altri ancora dal momento della fondazione dello Stato unitario. I materiali su cui lavorare erano numerosi. Vi erano i lamenti di Dante («Ahi, serva Italia, di dolore ostello...»), le malinconiche riflessioni di Petrarca («Italia mia, benché il parlar sia indarno...») le invocazioni di Machiavelli contro il «barbaro dominio», la Storia d’Italia di Guicciardini, gli Annali d’Italia di Ludovico Antonio Muratori.

Nel dibattito provocato dalla proposta di Volpe, Benedetto Croce tagliò corto e sostenne che non era possibile fare una storia d’Italia prima della sua unificazione. Per scrivere dell’«Italia», in altre parole, occorreva che esistessero anzitutto uno Stato nazionale e un popolo di cittadini. Dietro queste riflessioni vi era la convinzione che la storia fosse sempre «contemporanea». Gli storici non vanno alla ricerca del passato per il piacere di scoprire continenti sconosciuti. Vogliono risposte a domande che sono suggerite dai tempi in cui vivono e scelgono quindi temi, personaggi, epoche storiche in funzione dei problemi che desiderano risolvere. Gli storici, generalmente, non lo ammettono perché non vogliono che la loro opera appaia dettata da considerazioni utilitarie. Ma Croce aveva certamente ragione. L’interesse per il passato nasce sempre dalle questioni che dobbiamo affrontare nel presente. Si potrebbero allargare le riflessioni di Croce e osservare che la storia d’Italia diventa possibile solo nel momento in cui l’unità statale della Penisola appare desiderabile, possibile o addirittura a portata di mano. Ogni storia nazionale, anche quando l’autore non lo ammette o non ne è consapevole, trae il suo senso e la sua «direzione di marcia» dal punto d’arrivo, vale a dire dalle condizioni del Paese nel momento in cui l’autore comincia a scrivere. Perché dunque scrivere una storia d’Italia che comincia quando l’Italia non esiste e si prolunga per più di un millennio senza alcuna traccia della sua protagonista?

Montanelli crede evidentemente che questo lungo periodo sia già «italiano» e possa essere rappresentato come la lunga incubazione di un evento iscritto nella storia del Paese e nel carattere dei suoi abitanti. Poco importa se abbia torto o ragione. Molto più interessante, mi sembra, è cercare di capire perché sia giunto alla conclusione che una tale storia d’Italia era possibile e auspicabile.

Montanelli è certamente «risorgimentale». Il ricordo del prozio, Giuseppe Montanelli, appartiene al patrimonio familiare. Il suo fascismo giovanile non ha nulla a che vedere con le componenti socialiste, repubblicane e corporativiste del partito di Mussolini. È fondato sulla convinzione, comune allora a molti italiani, che il fascismo possa rappresentare la continuazione del Risorgimento e completarne l’opera. È intelligente, spregiudicato, caustico e non tarda a stancarsi della retorica patriottarda del regime soprattutto quando i fatti, come nella guerra di Spagna, non corrispondono alle dichiarazioni roboanti dei bollettini militari. Ma la parola patria non ha mai smesso di suscitare nel suo animo sentimenti e emozioni.

Sull’Italia del dopoguerra non si fa illusioni. Sa che il fascismo è stato sconfitto da una combinazione di circostanze, non dagli italiani, e che il Paese sarà prevalentemente governato d’ora in poi da forze politiche che non hanno creduto nel Risorgimento. Cede ogni tanto, come Leo Longanesi, alla tentazione di nobilitare il passato e di proclamare le virtù perdute degli uomini che «fecero l’Italia». Ma è troppo colto, spregiudicato e «sacrilego» per costruire un passato fittizio.

Montanelli non era soltanto risorgimentale. Era anche fiorentino e aveva per Firenze sentimenti non troppo diversi da quelli che aveva per l’Italia. Conosceva i vizi e i difetti della città e non esitava a denunciarli. Ma non avrebbe mai permesso a un’altra persona di fare altrettanto. Sarebbe sbagliato e ingiusto, tuttavia, ridurre il suo rapporto con la città a una sorta di patriottismo municipale. Firenze era per Montanelli l’aristocrazia culturale della nazione, la patria della sua lingua, della sua arte, del suo pensiero politico. Era insomma l’anello necessario di quell’insieme che lo rendeva fiero e orgoglioso della sua identità nazionale.

La Storia d’Italia nasce all’incrocio fra questi sentimenti e amori: la patria italiana, la patria fiorentina, la patria toscana, il rapporto con la romanità, la sensazione di appartenere, sia pure criticamente, a quella sequenza di eventi e personaggi che formano il copione della storia italiana. Per un narratore di eventi e un pittore di ritratti la tentazione è irresistibile. Montanelli non ha mai imparato e praticato il mestiere dello storico secondo le regole fissate dal mondo accademico, ma non mai smesso di leggere storia. Sa che tra la storiografia italiana e quella di altri Paesi, soprattutto di lingua inglese e francese, esistono grandi differenze. La prima è impeccabilmente filologica, zeppa di note e riferimenti bibliografici, scritta soprattutto per le fasce più colte della società e per i colleghi universitari. La seconda è altrettanto seria e documentata, ma è capace di narrare una battaglia come se non ne conoscessimo già il risultato e la vita di un uomo come se già non sapessimo quali furono i suoi approdi finali.

Montanelli ha un’ambizione: vuole dare una lezione di stile a un ambiente che gli sembra polveroso, spocchioso e per di più soggetto all’influenza di pregiudizi ideologici che rendono i libri terribilmente prevedibili. Si rende conto di non poter affrontare da solo un’opera che lo costringerebbe ad abbandonare qualsiasi altro impegno professionale e decide di creare quella che per i grandi pittori italiani, soprattutto del Rinascimento, si sarebbe chiamata una bottega. Ma riconosce cavallerescamente il merito dei suoi compagni di lavoro, da Roberto Gervaso a Mario Cervi.

È possibile che neppure Montanelli, agli inizi, si rendesse conto dell’importanza che questa iniziativa avrebbe avuto per la sua vita. Se ne accorse quando l’opera, sin dai primi volumi, provocò due reazioni diametralmente opposte: i commenti a bocca storta dei recensori appartenenti al mondo accademico e l’entusiasmo dei lettori. Quel contrasto fu l’adrenalina di cui aveva bisogno per attraversare correndo mille e cinquecento anni di storia italiana. Quanto più gli accademici lo accusavano di scrivere una storia aneddotica, povera di riferimenti bibliografici e troppo «contemporanea», tanto più Montanelli accusava gli storici italiani di essere grigi e incomprensibili. Credo che poche cose, nel corso della sua vita, lo abbiano divertito quanto i suoi frequenti duelli con il mondo accademico. Sia detto per inciso, erano duelli impari: il fioretto di Montanelli era sempre più rapido e letale dello spadone dei suoi avversari.

Naturalmente non tutti i suoi critici avevano sempre torto. La Storia di Montanelli contiene lacune, scorciatoie, giudizi discutibili. Ma i suoi critici non capirono che l’autore stava facendo qualcosa di cui il Paese aveva bisogno e di cui essi sarebbero stati incapaci: la prima grande storia popolare della Penisola. Ne sarebbero stati incapaci perché lo storico accademico (una espressione che non vuole essere irriverente) è sempre necessariamente lo specialista di un’epoca, di una regione, di un tema. Nessuno di essi sarebbe in grado di fare con altrettanta competenza un’opera destinata a estendersi su molti secoli e a trattare tutti gli aspetti di una storia nazionale intrecciata con quelle dei maggiori Paesi europei. È questa la ragione per cui quasi tutte le storie d’Italia, da quella di Einaudi a quella di Galasso per Utet, sono opere collettive, spesso realizzate, come la prima, con un numero sterminato di collaboratori. Per una grande storia popolare invece occorrono unità di stile, di concezione, di prospettiva e una dose massiccia di cultura generale. Il grande merito di Montanelli fu di avere osato l’impresa e realizzato il libro da cui gli italiani avrebbero ricavato quel sentimento di identità e appartenenza che completava la storia della loro unità e di cui anche oggi, a quanto pare, hanno bisogno.