Varie, 4 settembre 2010
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 6 SETTEMBRE 2010
Nei primi sette mesi dell’anno i cassintegrati a zero ore sono stati oltre 650 mila. Roberto Mania: «È un pezzo del nostro sistema industriale che si sta insabbiando, per il quale i segni di ripresa potrebbero non arrivare mai». [1] Salvatore Mannironi: «“Il made in Italy è finito perché costa troppo”, teorizza Benetton portando all’estero le produzioni. L’effetto è che la vicentina Olimpias, senza più commesse Benetton, chiude e licenzia. Oltre i confini puntano altri marchi celebri come Bialetti (caffettiere), Omsa (collant) o Case New Holland (Fiat) che i mietitrebbia andrà a farli in Russia “per essere più vicina ai clienti”». [2]
Causa il perdurare della crisi (-31% di fatturato negli ultimi due anni), la Bialetti ha deciso di chiudere lo stabilimento piemontese di Crusinallo di Omegna (Verbania Cusio Ossola) mettendo in mobilità 120 dipendenti. Repubblica: «In Italia resteranno la ricerca e le fasi di lavorazione ad alto valore aggiunto. Il resto della produzione sarà concentrato in Romania e nel Far East». [3] L’Omsa vorrebbe delocalizzare in Serbia (dove già possiede due stabilimenti) le lavorazioni che hanno sede a Faenza (300 dipendenti, quasi tutte donne). Marco Sodano: «La cassa integrazione continua, non si vedono segnali confortanti all’orizzonte e Omsa ha chiuso un accordo con Belgrado». [4]
A giugno i tavoli di crisi aziendale aperti al ministero dello Sviluppo economico, vacante dal 4 maggio quando si dimise Claudio Scajola, hanno raggiunto quota 170. Enrico Marro: «Anche se “ci sono segnali di ripresa” e alcuni casi vengono risolti, come quello dell’Alcoa, “spesso le situazioni critiche si aggravano, perché, esaurita la cassa integrazione ordinaria, si passa a quella straordinaria”, dice il responsabile dell’unità di crisi del ministero, Giampiero Castano. I 170 tavoli riguardano aziende che nell’insieme hanno quasi 400 mila lavoratori. Di questi, secondo le tabelle ministeriali, uno su quattro rischia di perdere il posto, per la precisione 109.278». [5]
Le vertenze seguite riguardano imprese con almeno 150-200 dipendenti, mentre sono escluse quelle piccole. [5] Mannironi: «I 6 dipendenti della Tekmi di Ponte San Pietro lo hanno saputo a fine turno che l’azienda chiudeva. Ai 48 della Streglio la notizia è arrivata dal tribunale che ha sancito il fallimento della storica cioccolateria piemontese. Poi ci sono le comunicazioni formali come quella della Basell di Terni (chiusura per fine produzione: 140 lavoratori a spasso), della Bialetti (delocalizzazione per crisi: 120 esuberi) o di Teleperformance (mille licenziamenti). Medie o piccole, famose o sconosciute, nell’industria o nei servizi, le aziende che non vedono la ripresa sono ancora centinaia». [2]
Dal monitoraggio del ministero sono esclusi anche grandi gruppi come Fiat e Telecom e le imprese già in amministrazione straordinaria, per cui, tenendo conto di cassa straordinaria, mobilità, chiusure, si può parlare di 200-250 mila posti a rischio. [5] Sodano: «Il ministero ha diviso il Paese in sistemi locali del lavoro (aree di comuni contigui nelle quali l’occupazione gravita intorno a un settore): su 686 zone individuate 113 sono in crisi “elevata”, 136 in crisi “medio-alta”». Le regioni più colpite sono il Mezzogiorno e il Nordovest, il settore più colpito il tessile (e di conseguenza la moda) con quasi 12mila posti a rischio. [4]
Su un totale di 3.663 aziende manifatturiere ricorse alla cassa integrazione speciale nel 2010 (nel 2009 erano state 1.528) 783 operano nel tessile-abbigliamento, seguono metallurgico (525 imprese), macchinari (471), vetro (290). Nell’elenco dei settanta dossier più scottanti raccolto dai tecnici dello Sviluppo economico tredici sono raggruppati sotto la voce moda. Livadiotti: «Un’elaborazione dell’Istituto per la promozione industriale su dati Eurostat dice che la produzione, rispetto al 2000, lo scorso anno è scesa a quota 55,9 per cento nel tessile e addirittura a 50,1 negli impianti che trattano pelli e cuoio». [6]
Il settore auto conta 9mila posti rischio. Marro: «L’indotto auto, la componentistica sono in grave sofferenza. Dalla Ergom (500 posti a rischio in Piemonte, Campania e Lombardia) alla Rieter (400 in Lombardia, Piemonte e Veneto), dalla Oerlikon (1.200 in varie regioni del Nord) alla Speedline di Venezia (100), dalla V.M. di Cento (300) alla Grimeca di Rovigo (800)». [5] Un caso simbolo è quello della Maflow, tubi per impianti di condizionamento per auto prodotti negli stabilimenti di Trezzano sul Naviglio e Ascoli Piceno, da giugno appartenente al gruppo polacco Boryszew. In crisi da quando la Bmw ha ritirato quella che era la commessa primaria , i lavoratori sono da oltre un anno in cassa integrazione. [3] Ad agosto è stato siglato un accordo che prevede il ritorno al lavoro per la metà dei lavoratori, per gli altri prepensionamenti o altri due anni di cassa integrazione. [7]
Nel settore degli elettrodomestici rischiano in 8mila. Sodano: «C’è il caso Merloni, 3.200 dipendenti tra Marche, Umbria e Emilia Romagna. La cassa integrazione va avanti ormai da anni e - spiega la Cgil – “sempre più spesso si registrano ritardi anche nel pagamento di quei 650 euro di cassa”. Alla Indesit sono invece 500 le persone in apprensione per il loro lavoro». [4] La Indesit ha subito un duro colpo dal crollo del mercato russo, di primaria importanza nelle strategie della compagnia. L’amministratore delegato Marco Milani ha deciso la chiusura di due fabbriche del Nord, quella di Brembate in provincia di Bergamo e quella di Refrontolo nel Trevigiano. [8]
Milani vuol concentrare la produzione negli stabilimenti di Caserta e Fabriano, più grandi e quindi in grado di aumentare i volumi senza gravare sui costi fissi. Dario Di Vico: «Tra l’altro a Brembate l’Indesit produce le lavatrici con carica dall’alto, un prodotto che si vendeva soprattutto nei Paesi dell’Est e che ora non morde più». Spalleggiati dai leghisti, Fiom e Fim hanno allora avallato il blocco dei magazzini rendendo impossibile la consegna a quei pochi clienti che ancora volevano lavatrici a carica dall’alto. Il risultato è che Milani comincia a farsi domande alla Marchionne: «Ci sono ancora le condizioni per produrre in Italia consistenti volumi di lavatrici e frigoriferi?». [8]
Nella chimica di base sono a rischio 4.500 posti. [5] Repubblica: «La Vinyls e la protesta sull’Isola dei cassintegrati sono un po’ il simbolo delle difficoltà, ma la crisi ha colpito pesante anche altrove. Il caso più eclatante è forse quello della Nuova Pansac. Il gruppo che fa capo al presidente del Mantova calcio, Fabrizio Lori, e produce materiale per pannolini, il 4 di maggio annuncia a sorpresa un piano industriale che prevede 501 esuberi su un totale di 856 dipendenti, la chiusura degli stabilimenti di Ravenna, Portogruaro e Zingonia (Bg) nonché delle sedi amministrative di Milano e Mantova. Dopo la rivolta di sindacati e istituzioni, l’avvio della vertenza porta a un accordo che prevede 12 mesi di cassa integrazione per crisi aziendale e per un massimo di 450 lavoratori». [3]
Nell’alimentare la crisi ha colpito marchi come la Berni, che commercializza prodotti quali il Condiriso. Repubblica: «Il 12 maggio l’azienda ha annunciato la chiusura entro l’anno dello stabilimento di Gragnano Trebbiense (Pc): 57 i lavoratori a rischio. Per salvare i livelli occupazionali, l’unica ipotesi concreta sembra il trasferimento dei dipendenti nello stabilimento di Collecchio. I sindacati proclamano lo sciopero, ricordando che la proprietà, il Consorzio padano ortofrutticolo (Codorno), si era impegnata a rilanciare Gragnano. A tremare, però, sono anche i 50 lavoratori della Battistero (panettoni) di Parma e i 40 della Fini (tortellini) di Modena alle prese con crisi di liquidità e modifiche societarie. A Cisterna (Lt) hanno scioperato i 600 dipendenti dello stabilimento Findus Italia, marchio che Unilever ha deciso di cedere: il timore è la chiusura definitiva». [3]
Nel distretto del mobile imbottito, localizzato tra Puglia e Basilicata, sono a rischio 5 mila posti su 15 mila. Marro: «E non si salvano neppure i settori dove negli ultimi anni si erano creati più posti di lavoro, dai call center all’information technology. Tra i gruppi ex Eutelia, Omnia Network, Phonemedia e altri ci sono almeno 20 mila lavoratori che potrebbero restare a spasso e che, tra l’altro, sono almeno in parte difficilmente ricollocabili, come accade per tutti i dipendenti che perdono il posto intorno ai 45-50 anni. Preoccupa anche la sorte dell’Italtel, l’ultima grande azienda italiana di telecomunicazioni, mentre la crisi non risparmia neppure la siderurgia, dalla ex Lucchini a Piombino al gruppo Riva a Taranto». [5]
Nel settore della ceramica sono a rischio 5mila posti. Emanuele Scarci: «Apparentemente un tracollo, considerando che in totale gli occupati del settore sono 24.600, in realtà gli effetti di una profonda crisi internazionale dell’edilizia (ma l’inversione c’è stata) e di un lungo periodo di razionalizzazioni produttive e di upgrading qualitativo. Tanto che alla vigilia della grande crisi il valore della produzione dell’industria ceramica italiana oscillava ancora intorno al massimo storico, 5,5 miliardi, di cui il 72% all’export. L’anno scorso il valore della produzione è scivolato di un miliardo in un colpo solo, per tre quarti sui mercati internazionali. E oggi 5mila addetti (un quinto degli occupati) sono scivolati, divisi equamente, nel limbo della Cig e dei contratti di solidarietà». [9]
Con tanti problemi da risolvere, son passati 125 giorni dalle dimissioni di Scajola. La settimana scorsa il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha sollecitato la nomina del suo successore, il premier Silvio Berlusconi ha promesso che entro la settimana porrà fine al suo interim. Se gli uomini forti del governo, come Tremonti e il ministro del Welfare Maurizio Sacconi, ritengono che la politica industriale la debbano fare gli imprenditori e non l’esecutivo, il Quirinale gradirebbe la nomina di un esponente dell’ala programmatrice della maggioranza, tipo il finiano Mario Baldassarri, che però ha già messo le mani avanti: «Io ritengo che questo ministero possa adottare scelte importanti se riesce a trovare nuove risorse che non vadano a impattare sui conti pubblici di cui Tremonti è giustamente la vestale gelosa». [10]
Note: [1] Roberto Mania, la Repubblica 31/8; [2] Salvatore Mannironi, la Repubblica 3/6; [3] la Repubblica 3/6; [4] Marco Sodano, La Stampa 24/8, [5] Enrico Marro, Corriere della Sera 14/6; [6] Stefano Livadiotti, L’espresso 10/9; [7] la Repubblica 13/8; [8] Dario Di Vico, Corriere della Sera 1/9; [9] Emanuele Scarci, Il Sole 24 Ore 3/9; [10] Roberto Bagnoli, Corriere della Sera 3/9.