Sergio Romano, Corriere della Sera 4/9/2010, 4 settembre 2010
RISPONDE ROMANO
Ho seguito nelle ultime settimane la vicenda Fini-Montecarlo. In questa faccenda, come in tante altre in tempi passati, mi meraviglio sempre che le persona con un incarico parlamentare importante, di fronte a certe accuse più o meno provate, non si dimetta temporaneamente al fine di risolvere il problema. Si induce un’inchiesta giudiziaria per accertare la verità e nel caso affermativo le dimissioni diventano permanenti. Nel caso contrario le persona riprende il suo incarico. Perché non si seguono queste regole nella politica italiana come si fa in tanti Paesi democratici? Ci sarebbe più rispetto e meno cinismo verso i politici. Franca Arena Sydney (Australia)
Cara Signora
In una conversazione a quattr’occhi, confidenziale e distesa, un uomo politico italiano le risponderebbe più o meno così: «Lei ha perfettamente ragione. Le dimissioni sono in queste circostanze utili al dimissionario, che può disporre così del tempo necessario per la propria difesa, e corrette perché evitano che egli possa servirsi della propria funzione pubblica per inquinare la prove. Ma io vivo in Italia, vale a dire in un Paese che presenta caratteristiche di cui non posso non tenere conto. In primo luogo, la vita politica italiana è un campo di battaglia, dove si gioca "sporco": colpi bassi, insinuazioni, calunnie, fughe di notizie pilotate, scandali montati con una accorta combinazione di bugie e mezze verità. In secondo luogo i tempi della giustizia sono terribilmente lunghi. Supponga ad esempio, cara signora, che io abbia un incarico di governo e che qualcuno mi accusi di avere trescato con il ministero dei Lavori pubblici per garantire una grossa commessa a una azienda amica da cui sarei stato generosamente compensato. Proclamo la mia innocenza, mi dimetto, dichiaro di avere fiducia nella giustizia e attendo che la mia innocenza venga provata. Quanti anni dovrò aspettare prima che si concludano le indagini giudiziarie e i processi provocati dallo scandalo? Sarò accolto a braccia aperte dal mio partito o dal mio governo quando la mia innocenza sarà stata dimostrata? Vi sarà ancora un posto per me nella vita pubblica o verrò dimenticato a favore delle persone più giovani e intraprendenti che nel frattempo avranno riempito il vuoto lasciato dalle mie dimissioni?».
Mi rendo conto del peso di questi argomenti, ma risponderei che esiste oggi un problema di cui la classe politica sembra essere inconsapevole. Il Paese non crede più nei suoi rappresentanti. Va ancora alle urne, anche se il numero dei non votanti è andato progressivamente aumentando, ma con una crescente combinazione di rabbia, frustrazione, stanchezza e disprezzo. I sondaggi, i blog, le lettere ai giornali rivelano un’Italia delusa e amareggiata. Di fronte a questo diffuso malumore, la «casta», come è stata chiamata in un noto libro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, continua a comportarsi come se l’occupazione di un posto pubblico le garantisse un certo numero di licenze, prerogative e vantaggi collaterali (i «perks», come vengono chiamati nella prassi aziendale anglo-americana) a cui non intende rinunciare. La persona che rifiuta di dimettersi ritiene di potere contare sulla comprensione e la complicità del sodalizio politico a cui appartiene e spera che, passata la bufera, il suo caso venga dimenticato. E non si rende conto che sta perdendo la componente fondamentale del suo mandato: la fiducia.