Fulvio Salimbeni, Corriere della Sera 4/9/2010, 4 settembre 2010
LA PIAZZA FORTE CHE FERMÒ GLI AUSTRIACI DI RADETZKY
Chi percorra l’autostrada che da Udine va al confine austriaco, subito dopo il capoluogo friulano incontra l’uscita per «Gemona-Osoppo», che porta in una località in cui nel 1848 fu scritta una pagina gloriosa del Risorgimento, ignorata nei manuali e raramente ricordata, e di scorcio, nelle ricostruzioni della Prima guerra d’indipendenza. Quando si celebra la vicenda quarantottesca si pensa subito alle Cinque Giornate di Milano, alla Repubblica Veneta di Manin e Tommaseo o a quella Romana di Mazzini e Garibaldi e alla campagna di re Carlo Alberto nel Lombardo-Veneto, ma quasi mai si considera la varietà e complessità di situazioni che caratterizzò quel frangente. Se ciò è da tempo acquisito dalla ricerca storiografica, nell’immaginario collettivo tende a permanere la rappresentazione scolastica d’un tempo, raffigurante gli italiani uniti e concordi nella lotta contro l’Austria, sconfitti solo dalla preponderanza delle armate del maresciallo Radetzky. Riandare, perciò, a un caso particolare di microstoria risorgimentale, in cui si riflettono le contraddizioni di quella generale, costituisce un’utile chiave di lettura per comprendere un momento cruciale del processo risorgimentale.
Osoppo, per la favorevole collocazione geografica, che consente il controllo delle vie che dall’arco alpino orientale portano all’Adriatico, sin dall’antichità fu utilizzata quale luogo fortificato, conoscendo un primo momento di gloria nel 1514, al tempo della guerra tra la Serenissima e la Casa d’Austria, allorché la guarnigione veneziana resistette all’assedio delle milizie imperiali, meritandosi la riconoscenza del Senato marciano. Ulteriore conferma del suo ruolo strategico si ebbe al tempo delle campagne di Napoleone, che ne colse l’importanza strategica, promuovendo lavori di potenziamento della fortezza, che dopo il passaggio, nel 1814, all’impero asburgico venne perdendo d’importanza, non trovandosi più su una linea di confine, bensì all’interno dei domini statali d’appartenenza. Il suo momento giunse nell’anno della «Primavera dei Popoli», allorché l’ondata rivoluzionaria, partita da Parigi nel febbraio, raggiunse pure l’Austria, provocando la caduta del Metternich. Da Vienna i moti dilagarono in Italia, dove le insurrezioni di Milano e di Venezia, cogliendo di sorpresa le truppe austriache, costrette a ripiegare nel Quadrilatero, spinsero Carlo Alberto a intervenire sia per sfruttare l’occasione propizia di un’espansione nella pianura padana sia per porre sotto controllo un movimento «sovversivo» che, sull’esempio francese, sarebbe potuto degenerare in una rivoluzione sociale. E’ in un tale contesto che si collocano anche gli eventi friulani, dove pure a Udine le autorità governative furono costrette a cedere il potere all’amministrazione provvisoria cittadina, mentre le stesse guarnigioni delle fortezze di Palmanova e d’Osoppo non ponevano resistenza alcuna alle agitazioni popolari, abbandonando gli acquartieramenti e ritirandosi verso le più sicure posizioni del Tarvisiano e della contea di Gorizia, mentre buona parte dei soldati italiani disertava, o per ritornare a casa o per ingrossare le file degli insorti, che costituivano il nuovo esercito della Repubblica Veneta.
L’iniziale entusiasmo, però, era destinato a svanire presto, un po’ per la rapida reazione dell’esercito imperiale, che venne recuperando il controllo di buona parte del territorio, in ciò facilitato dalla disorganizzazione e improvvisazione dei rivoltosi, e molto per le reciproche diffidenze tra il sovrano sabaudo e le autorità «rivoluzionarie», tra moderati e repubblicani. Inoltre a fine aprile Pio IX si defilava dal conflitto, provocando l’immediato raffreddamento del fervore nazionale del clero e il disorientamento tra i cattolici. Ciò spiega la facile riconquista austriaca prima di Udine, che non fu in grado d’opporre un’efficace resistenza, e, a fine giugno, di Palmanova, caduta anche per i contrasti interni alla guarnigione, costituita da regolari e volontari, e tra essa e i civili, costretti a vivere in condizioni sempre peggiori.
Da allora l’unica isola di resistenza rimase quella di Osoppo, la cui espugnazione per gli austriaci era di grande importanza, in quanto essa ostacolava la discesa dei rinforzi provenienti dal cuore della monarchia per rinforzare l’armata impegnata con i piemontesi. Il presidio della cittadella, costituito da poche centinaia di militi, di diversa formazione e provenienza, molti dei quali, volontari, poco adusi alla disciplina e inesperti di guerra, era comandato da Licurgo Zannini, ufficiale coraggioso, ma poco felice nei rapporti con gli ufficiali e nel mantenere l’ordine tra i suoi uomini, spesso riottosi e ribelli. Un altro grave problema era costituito dai rapporti con la popolazione, che, pur animata da spirito patriottico, sopportava i maggiori gravami della situazione, non potendo più occuparsi né dei campi né del bestiame, causa l’assedio sempre più stretto imposto dagli austriaci da luglio in poi, ancor più dopo l’armistizio di Salasco, che interrompeva le ostilità con il Piemonte, sconfitto sul campo di battaglia. La guarnigione inoltre era poco e mal soccorsa da Venezia, in crescenti difficoltà essa pure dopo la perdita della terraferma e sempre meno in grado di mandare rifornimenti e rinforzi agli assediati, mentre largheggiava in encomi e in reboanti dichiarazioni d’amor patrio (che non costavano nulla, ma non servivano a risollevare il morale dei coraggiosi difensori dell’isolato avamposto, che si sentivano sempre più abbandonati a sé stessi). Gli osoppani continuarono però a fare il proprio dovere, respingendo i frequenti e violenti attacchi degli imperiali, compiendo scorrerie contro gli avamposti nemici e riuscendo a procacciarsi un minimo di viveri grazie ai contrabbandieri, che, se catturati dagli austriaci, venivano passati per le armi. Gli assedianti, per piegare la resistenza, tale da far credere loro che i nemici fossero più numerosi di quanto in realtà erano, cominciarono a fare terra bruciata nei dintorni, a imporre gravami crescenti sugli abitanti del circondario, onde costringerli ad abbandonare al loro destino gli assediati, e a intensificare i bombardamenti, finché all’inizio d’ottobre, dopo quasi sette mesi di assedio, si giunse all’attacco finale, preceduto da un intenso cannoneggiamento, che provocò l’incendio del paese e portò alla conquista, a caro prezzo, dei capisaldi esterni. In tale situazione il comandante della fortezza, che aveva sempre cercato d’evitare inutili sofferenze ai civili, preso atto pure dell’esiguità delle riserve di viveri e della stanchezza e crescente insubordinazione dei militi, stremati dal lungo assedio, decise la capitolazione, concessa con l’onore delle armi al presidio, i cui componenti furono lasciati liberi di tornare alle loro case o, come l’eroico vicecomandante, il friulano Leonardo Andervolti, di raggiungere Venezia per un’ultima disperata resistenza.
Se questa vicenda, a suo tempo celebrata in un quadro, oggi disperso, di Antonio Picco, la cui opera di pittore e patriota friulano, partecipe ai moti del ’48, è stata studiata con finezza da Vania Gransinigh, ha trovato un’adeguata ricostruzione nella storiografia regionale — dopo i contributi di Antonio Faleschini e Arturo Toso, nel 1998 il documentato libro di Paola Ferraris, L’aquila e il leone: l’assedio di Osoppo del 1848 (La Nuova Base Editrice di Udine) —, pare ora giunto il momento di collocare tale episodio, che attesta la piena partecipazione friulana alle vicende nazionali, a fianco di quelli più noti di quel cruciale anno. Ciò, infine, spiega perché durante la Resistenza sul confine orientale le formazioni partigiane cattoliche e liberali abbiano scelto di denominarsi «Osoppo», istituendo un emblematico collegamento tra primo e secondo Risorgimento.
Docente di storia contemporanea all’Università di Udine e presidente del Comitato Trieste e Gorizia dell’Istituto di storia del Risorgimento