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 2010  settembre 04 Sabato calendario

QUELLA REGIONE TESTARDA CHE HA BATTUTO LE NEW TOWN

«Ecumò ce hao di paja?». Così disse la vecchia terremotata, sotto gli occhi di padre David Maria Turoldo. I soccorritori le avevano appena consegnato un paio di coperte e dei viveri e lei voleva sapere: «E adesso cosa devo pagare?». Spiegava il frate poeta che lì c’era il senso di tutto: «Una ricostruzione, per essere vera, perché sia segno di civiltà e abbia un valore, non può essere regalata. Una ricostruzione si paga e basta: allora ha un valore. Una cosa si deve fare con le proprie mani, allora la si ama». Quindi «è bene che non ci sia dato nulla in regalo».

Sia chiaro: non è che lo Stato non abbia fatto la sua parte, dopo la doppia randellata che il sisma diede alle colline delle prealpi carniche il 6 maggio e l’11 settembre del 1976 uccidendo 989 persone alla prima conta più tutti quelli morti nelle settimane seguenti negli ospedali. Anzi, per una volta la macchina pubblica, Stato, Regione, Provincia, Comunità collinare e Comuni furono all’ altezza della sfida. Al punto che Italo Calvino si sbilanciò a scrivere che «i responsabili politici lavorarono unitariamente mettendo insieme quei tesori di impegno, di finezza, di pazienza e di moralità che occorrono per il successo di una battaglia politica perché questo era l’imperativo categorico dettato dalla loro coscienza». Senza badare, per una volta, alle tessere.

Quali siano i risultati, lo dice una passeggiata nel cuore di Gemona, lo stesso descritto allora da Gianni Rodari, il nostro Hans Christian Andersen, in un reportage per Paese Sera tra le «macerie di una cittadina che fu già bellissima, e ora è soltanto un groviglio pauroso. Il vecchio storico borgo è crollato da 48 ore, ma sembra morto da secoli. Le stradine preziose, i vicoli pittoreschi sono soltanto torrenti di detriti, le case sventrate, schiacciate, frantumate, è già come se non fossero state abbattute da questo terremoto ma da un altro, cento anni fa o da un bombardamento in qualche guerra». Era impressionato, Rodari: «Non si vede più nessuno piangere il secondo giorno dopo il terremoto. La fine di quello che c’era è una cosa accaduta in un tempo già lontano. È cominciata un’altra cosa. Non si sa ancora che cosa sarà».

Eccolo qui com’è, oggi, il cuore di Gemona. Il Duomo, il palazzetto gentilizio che ospita la ricca cineteca del Friuli, le stradine, le piazzette... Certo, le foto di allora con quegli ammassi di macerie dicono che quasi nulla è davvero «originale». Insomma, la «purezza» delle pietre antiche non è poi così antica. Se chiedi alle persone se avrebbero preferito buttar via tutto e tirar su una new town, però, ti guardano di traverso.

E così a Venzone, dove puoi vedere forse l’espressione migliore di quella filosofia che dominò la ricostruzione: «dov’era, com’ era». Dov’era e com’era è il possente muro di cinta, dov’era e com’era è la porta di accesso al borgo, dov’erano e com’erano sono i palazzi allineati lungo la strada principale. Ma soprattutto, bellissimo, dov’era e com’era è il Duomo, che era stato inaugurato nel 1338 da Bertrando di Saint -Geniés, patriar -ca-guerriero di Aquileia e dopo avere barcollato alla prima botta sismica di maggio, era stato annientato dalla seconda di settembre.

Architetti, restauratori, ingegneri, storici dell’arte ed esperti vari erano tutti d’accordo: danni troppo gravi, impossibile ricostruire. Meglio fare una chiesa nuova. Qualcuno andò oltre, proponendo di coprire il paese intero con una gran cupola di plastica. Mai, dissero gli abitanti. E quando arrivarono le ruspe, sbarrarono loro la strada. E firmarono in massa (630 su 650 adulti) una petizione: com’era e dov’era. La leggenda, raccolta per Epoca da Gualtiero Strano, narra che a un certo punto il sovrintendente tentò di mettere in riga il prete, Giovan Battista Della Bianca: «Lei stia sul suo altare a dire la messa che a fare gli architetti ci pensiamo noi». E quello: «Se siete inefficienti faremo noi anche gli architetti». Finì che i cittadini recuperarono tutte le pietre del loro Duomo, le caricarono sui furgoni e le carriole e le sparpagliarono in un grande campo: 7.650 pietre. Numerate una ad una grazie alla perizia fatta dopo la prima scossa.

«Ognuna di queste pietre, quando il Duomo fu edificato, costò una giornata di lavoro a un uomo: 7.650 pietre sono 7.650 giorni», spiegò il pievano, «Venti anni di fatiche, sudori, sofferenze non potevano finire in discarica». Ci misero anni, i venzonesi, ad averla vinta. Ma ora il Duomo è lì. E chissà che rivederlo non abbia salvato delle vite. Le statisti---

che degli anni seguiti alla catastrofe, infatti, dicono che lo spaesamento tra i sopravvissuti più fragili fu tale da far impennare i suicidi fino a raddoppiare (11,6 contro 5 ogni centomila abitanti) la media nazionale.

Non solo a Gemona, Osoppo o Venzone fu sconfitta la teoria delle new town: «Secondo l’ingegnere autore della prima bozza del piano urbanistico — ricorda l’architetto Luciano Di Sopra, che del «modello Friuli» fu uno dei protagonisti come firmatario del piano di ricostruzione —, il sisma dava l’opportunità di abbandonare le zone danneggiate e trasferire la popolazione lungo l’asse Udine-Pordenone, con una ricostruzione resa più rapida dall’impegno integrale della prefabbricazione edilizia per realizzare nuovi edifici antisismici».

Impugna un libro scritto dopo essersi occupato di varie catastrofi in giro per il mondo compreso inizialmente («ma non facevo parte di nessuna cricca partitica e mi fecero fuori») il sisma in Irpinia. Si intitola Il costo

dei terremoti. E’ pieno di cartine: «E’ stata una mania sovietica quella di spostare gli abitanti in new town permanenti — ammicca immaginando l’effetto che può fare a Berlusconi —. E’ il modello Belice. Ecco cosa hanno fatto a Montevago, Salemi, Salaparuta... Per non dire di Gibellina, spostata a una trentina di chilometri di distanza lasciando spazio ad architetti e artisti che avevano in testa modelli di periferie del Nord Europa. Il risultato è lì. Prendete Venzone e Gibellina Nuova. C’è qualcuno che pensa che andasse fatta la scelta siciliana?».

Corsi e ricorsi storici. La stessa scelta era stata fatta nell’isola dopo il terremoto che nel 1693 aveva devastato la Valle di Noto, causato almeno 60 mila morti e raso al suolo 25 centri. Fra i quali Occhiolà, feudo del principe di Butera. Il quale decise di spostare il borgo, di chiamarlo Grammichele e di prendere a modello la fortezza di Palmanova. In Friuli. «Non ripetiamo il Belice», titolò il Corriere il giorno dopo il terremoto ai piedi della Carnia. Eppure non erano solo gli ingegneri «sviluppisti» a essere perplessi sulla possibilità di restituire la vita a quei paesi. «Non posso dimenticare l’incubo che a quattro mesi dal sisma domina in questa città morta», scriveva ai primi di settembre da Gemona il nostro Alfredo Todisco senza immaginare che giorni dopo sarebbe arrivata la seconda batosta, «Restaurare Gemona sarebbe come restaurare Ercolano o Pompei».

Ma si sa come sono i furlani: teste dure. Lo sa Vienna che, come spiega il professor Salimbeni nella pagina seguente, ebbe modo di assaggiare di che pasta erano fatti nel 1848, in occasione dell’eroica difesa della fortezza di Osoppo, uno degli episodi purtroppo meno noti del Risorgimento. Lo scrisse mezzo secolo fa, spiegando che i canadesi distinguevano gli italiani «in due grandi categorie: quelli del Friuli e gli altri», Gianfranco Piazzesi. Affascinato, lui, toscano di questo «popolo di emigranti plasmati con sapienza dal parroco: fatti apposta dal buon Dio per rifornire la comunità nazionale di muratori, di carabinieri e di domestiche. Un popolo che risolveva molti problemi e non ne creava nessuno».

Decisero di far le cose a modo loro e le fecero. Senza che ancora esistesse, così come la conosciamo oggi, la Protezione civile. Senza le scorciatoie emergenziali che oggi sono ritenute assolutamente indispensabili. Senza esibizioni muscolari. Senza l’alone mistico di uomini della Provvidenza. Bastò il buon senso e l’efficienza di Giuseppe Zambeletti, il sottosegretario che forse avrebbe potuto dare di più a questo Paese se non lo avessero fatto fuori alla prima occasione. Bastò la saggia decisione andreottiana di delegare il più possibile alla Regione e ai Comuni. Bastò una netta divisione dei compiti settore per settore. Bastò la collaborazione (questa sì una fortuna irripetibile) di quei 57mila militari che in quegli anni in cui c’era ancora la Cortina di ferro erano acquartierati nelle caserme a ridosso della frontiera jugoslava.

Determinante, certo, fu lo spirito dei friulani. Basti ricordare quanto disse anni fa l’allora presidente regionale, il dc Antonio Comelli: «Prima pensammo alle fabbriche, al lavoro, alla produzione. Poi alle case. Ricordo ad esempio che l’anno dopo il terremoto prelevammo 300 o 350 miliardi dal fondo per la ricostruzione per l’autostrada Udine-Tarvisio che era arrivata solo fino a Gemona. La gente era ancora nelle baracche. Pensammo: è giusto farlo, ma questa è la volta che ci linciano. E invece la gente capì: occorreva ripartire abbinando ricostruzione e sviluppo». Una scelta difficile, ma compresa: «Molti rinunciarono ai contributi statali. Chi aveva un danno non troppo grave si vergognava un po’ a chiedere soldi che magari servivano da altre parti». Il contrario di quanto sarebbe accaduto pochi anni dopo in Irpinia con l’allargamento dei comuni colpiti: alla prima conta 36, all’ultima 687. A un certo punto il

Gazzettino confrontò le due catastrofi. Itinerari opposti: fatti 100 i finanziamenti al momento del disastro, sette anni dopo gli stanziamenti per Gemona o Buja erano ridotti a 38, quelli per Sant’Angelo dei Lombardi o Nusco erano saliti a 132.

Di soldi dallo Stato, comunque, anche in Friuli, ne arrivarono: al 31 dicembre ‘ 95, quando la ricostruzione poteva ormai considerarsi conclusa, il pallottoliere si fermò a 12.905 miliardi. Nove miliardi di euro d’oggi. Un settimo dei 66 spesi in Campania. Certo, i friulani ci misero forza e cuore. Ma quanto hanno pesato, sui fallimenti in Belice e in Irpinia, le scelte diametralmente diverse della politica, che certo non possono essere superficialmente addebitate alla «pigrizia» dei siciliani e dei campani?

Marco Fantoni se lo ricorda come fosse ieri mattina, quel 6 maggio. Tutti i capannoni dello stabilimento di Osoppo in cui produceva mobili e pannelli furono devastati dalla botta: «Sulle prime ci venne da piangere: un disastro. Ma era inutile star lì a lagnarci. Era un giovedì sera. Mentre organizzavamo nel piazzale un centro per le roulotte per ospitare le famiglie dei dipendenti, abbiamo cominciato a consolidare con dei tiranti l’unico capannone rimasto in piedi e a portarci i macchinari che ancora potevano essere riparati. Il lunedì mattina ripartimmo con la produzione. Un mese dopo brindammo al primo mobile della rinascita».

Dice che no, non ha chiarissimo se il terremoto abbia dato un’accelerazione allo sviluppo delle aziende della zona e in particolare della sua: «Va’ a saperlo... Eravamo già ben avviati. Fu una sfida, questo sì: dovevamo mostrare di essere più forti della sfortuna». Certo è che al momento della scossa i dipendenti erano 310 e il fatturato di 6 miliardi di lire. Dieci anni dopo, i primi erano saliti a 510 e il secondo a 49. Un’impennata proseguita (360 milioni di euro nel 2007) fino alla grande crisi internazionale.

Fortuna dovuta a una pioggia di aiuti pubblici? «Mica tanto — risponde il figlio Giovanni, già presidente degli industriali friulani —. I contributi a fondo perduto sui danni accertati furono pari al 30% del danno subito per le aziende distrutte e al 20% per quelle danneggiate». Finanziamenti? «Fino a 12 anni con 3 di preammortamento al tasso del 4%. La Regione, certo, faceva da garante. E questo aiutò. I soldi, però, li abbiamo dovuti restituire». Anni buoni, dopo la botta. Buonissimi. Sospira: «Diciamo che per certi aspetti il terremoto più grave forse forse è quello finanziario di questi tempi». Che ha costretto l’azienda a ricorrere in modo massiccio ai contratti di solidarietà. Un destino comune a buona parte delle imprese friulane.

Dice una recentissima relazione degli uffici regionali che la produzione industriale del Friuli-Venezia Giulia è diminuita del 4,7% nel 2008 e addirittura dell’11% nel 2009. Senza risparmiare praticamente nessuno. A partire dal settore del mobile, che da queste parti è sempre stato una locomotiva. All’inizio del 2009 il calo, secondo Edi Snaidero, si aggirava sul 20-25%. Colpa degli ordinativi dai mercati extracomunitari, diminuiti nel 2009 di quasi il 7%. Letteralmente crollate le esportazioni in Russia: -55,8%. Incassata la mazzata più pesante negli Stati Uniti, la società ha reagito buttandosi sul mercato asiatico e lanciando modelli di cucine low cost con l’obiettivo di conquistare una fetta del mercato presidiato dalla Ikea. Auguri.

Nei primi tre mesi del 2010 c’è stata una certa ripresa. E l’aumento tendenziale su base annua della produzione industriale ha toccato punte del 12%. Con una ripresa nei fatturati (precipitati nel 2009 del 13,8%) oltre il 6,2%. Ma dire che la tempesta sia finita non si può. E se un po’ di fiducia sembra essere ritornata, molti imprenditori si leccano ancora le ferite. A fine 2009 il numero delle aziende iscritte alle Camere di commercio della regione era sceso per la prima volta da tanti anni sotto le 100 mila unità. Uno shock: in dodici mesi ne erano sparite 1.629. Con un tasso di mortalità più elevato della media nazionale e la scomparsa nel solo manifatturiero di 289 imprese: dalla siderurgia alla lavorazione dei metalli, dai mobili ai beni di consumo. Con una parallela impennata dei disoccupati: 34.700. Il doppio rispetto a tre anni fa.

Altri, con quei nuvoloni ancora addensati all’orizzonte, la vedrebbero nera. Eppure, dopo essere usciti alla grande dall’apocalisse del 1976, i friulani fanno mostra di ottimismo. Questione di carattere. Quello che colpì anche Riccardo Bacchelli. Un carattere che secondo il grande scrittore sarebbe stato temprato dall’essere sempre vissuti, i friulani, in un’area a cavallo fra il mondo tedesco, quello slavo, quello italiano e in definitiva avendo sempre l’immagine «immanente» di un terremoto, un’invasione, una guerra. Insomma, dall’esser sempre stati «sotto la bocca dei cannoni». «Ecumò ce hao di paja?». Così disse la vecchia terremotata, sotto gli occhi di padre David Maria Turoldo. I soccorritori le avevano appena consegnato un paio di coperte e dei viveri e lei voleva sapere: «E adesso cosa devo pagare?». Spiegava il frate poeta che lì c’era il senso di tutto: «Una ricostruzione, per essere vera, perché sia segno di civiltà e abbia un valore, non può essere regalata. Una ricostruzione si paga e basta: allora ha un valore. Una cosa si deve fare con le proprie mani, allora la si ama». Quindi «è bene che non ci sia dato nulla in regalo».

Sia chiaro: non è che lo Stato non abbia fatto la sua parte, dopo la doppia randellata che il sisma diede alle colline delle prealpi carniche il 6 maggio e l’11 settembre del 1976 uccidendo 989 persone alla prima conta più tutti quelli morti nelle settimane seguenti negli ospedali. Anzi, per una volta la macchina pubblica, Stato, Regione, Provincia, Comunità collinare e Comuni furono all’ altezza della sfida. Al punto che Italo Calvino si sbilanciò a scrivere che «i responsabili politici lavorarono unitariamente mettendo insieme quei tesori di impegno, di finezza, di pazienza e di moralità che occorrono per il successo di una battaglia politica perché questo era l’imperativo categorico dettato dalla loro coscienza». Senza badare, per una volta, alle tessere.

Quali siano i risultati, lo dice una passeggiata nel cuore di Gemona, lo stesso descritto allora da Gianni Rodari, il nostro Hans Christian Andersen, in un reportage per Paese Sera tra le «macerie di una cittadina che fu già bellissima, e ora è soltanto un groviglio pauroso. Il vecchio storico borgo è crollato da 48 ore, ma sembra morto da secoli. Le stradine preziose, i vicoli pittoreschi sono soltanto torrenti di detriti, le case sventrate, schiacciate, frantumate, è già come se non fossero state abbattute da questo terremoto ma da un altro, cento anni fa o da un bombardamento in qualche guerra». Era impressionato, Rodari: «Non si vede più nessuno piangere il secondo giorno dopo il terremoto. La fine di quello che c’era è una cosa accaduta in un tempo già lontano. È cominciata un’altra cosa. Non si sa ancora che cosa sarà».

Eccolo qui com’è, oggi, il cuore di Gemona. Il Duomo, il palazzetto gentilizio che ospita la ricca cineteca del Friuli, le stradine, le piazzette... Certo, le foto di allora con quegli ammassi di macerie dicono che quasi nulla è davvero «originale». Insomma, la «purezza» delle pietre antiche non è poi così antica. Se chiedi alle persone se avrebbero preferito buttar via tutto e tirar su una new town, però, ti guardano di traverso.

E così a Venzone, dove puoi vedere forse l’espressione migliore di quella filosofia che dominò la ricostruzione: «dov’era, com’ era». Dov’era e com’era è il possente muro di cinta, dov’era e com’era è la porta di accesso al borgo, dov’erano e com’erano sono i palazzi allineati lungo la strada principale. Ma soprattutto, bellissimo, dov’era e com’era è il Duomo, che era stato inaugurato nel 1338 da Bertrando di Saint -Geniés, patriar -ca-guerriero di Aquileia e dopo avere barcollato alla prima botta sismica di maggio, era stato annientato dalla seconda di settembre.

Architetti, restauratori, ingegneri, storici dell’arte ed esperti vari erano tutti d’accordo: danni troppo gravi, impossibile ricostruire. Meglio fare una chiesa nuova. Qualcuno andò oltre, proponendo di coprire il paese intero con una gran cupola di plastica. Mai, dissero gli abitanti. E quando arrivarono le ruspe, sbarrarono loro la strada. E firmarono in massa (630 su 650 adulti) una petizione: com’era e dov’era. La leggenda, raccolta per Epoca da Gualtiero Strano, narra che a un certo punto il sovrintendente tentò di mettere in riga il prete, Giovan Battista Della Bianca: «Lei stia sul suo altare a dire la messa che a fare gli architetti ci pensiamo noi». E quello: «Se siete inefficienti faremo noi anche gli architetti». Finì che i cittadini recuperarono tutte le pietre del loro Duomo, le caricarono sui furgoni e le carriole e le sparpagliarono in un grande campo: 7.650 pietre. Numerate una ad una grazie alla perizia fatta dopo la prima scossa.

«Ognuna di queste pietre, quando il Duomo fu edificato, costò una giornata di lavoro a un uomo: 7.650 pietre sono 7.650 giorni», spiegò il pievano, «Venti anni di fatiche, sudori, sofferenze non potevano finire in discarica». Ci misero anni, i venzonesi, ad averla vinta. Ma ora il Duomo è lì. E chissà che rivederlo non abbia salvato delle vite. Le statisti---

che degli anni seguiti alla catastrofe, infatti, dicono che lo spaesamento tra i sopravvissuti più fragili fu tale da far impennare i suicidi fino a raddoppiare (11,6 contro 5 ogni centomila abitanti) la media nazionale.

Non solo a Gemona, Osoppo o Venzone fu sconfitta la teoria delle new town: «Secondo l’ingegnere autore della prima bozza del piano urbanistico — ricorda l’architetto Luciano Di Sopra, che del «modello Friuli» fu uno dei protagonisti come firmatario del piano di ricostruzione —, il sisma dava l’opportunità di abbandonare le zone danneggiate e trasferire la popolazione lungo l’asse Udine-Pordenone, con una ricostruzione resa più rapida dall’impegno integrale della prefabbricazione edilizia per realizzare nuovi edifici antisismici».

Impugna un libro scritto dopo essersi occupato di varie catastrofi in giro per il mondo compreso inizialmente («ma non facevo parte di nessuna cricca partitica e mi fecero fuori») il sisma in Irpinia. Si intitola Il costo

dei terremoti. E’ pieno di cartine: «E’ stata una mania sovietica quella di spostare gli abitanti in new town permanenti — ammicca immaginando l’effetto che può fare a Berlusconi —. E’ il modello Belice. Ecco cosa hanno fatto a Montevago, Salemi, Salaparuta... Per non dire di Gibellina, spostata a una trentina di chilometri di distanza lasciando spazio ad architetti e artisti che avevano in testa modelli di periferie del Nord Europa. Il risultato è lì. Prendete Venzone e Gibellina Nuova. C’è qualcuno che pensa che andasse fatta la scelta siciliana?».

Corsi e ricorsi storici. La stessa scelta era stata fatta nell’isola dopo il terremoto che nel 1693 aveva devastato la Valle di Noto, causato almeno 60 mila morti e raso al suolo 25 centri. Fra i quali Occhiolà, feudo del principe di Butera. Il quale decise di spostare il borgo, di chiamarlo Grammichele e di prendere a modello la fortezza di Palmanova. In Friuli. «Non ripetiamo il Belice», titolò il Corriere il giorno dopo il terremoto ai piedi della Carnia. Eppure non erano solo gli ingegneri «sviluppisti» a essere perplessi sulla possibilità di restituire la vita a quei paesi. «Non posso dimenticare l’incubo che a quattro mesi dal sisma domina in questa città morta», scriveva ai primi di settembre da Gemona il nostro Alfredo Todisco senza immaginare che giorni dopo sarebbe arrivata la seconda batosta, «Restaurare Gemona sarebbe come restaurare Ercolano o Pompei».

Ma si sa come sono i furlani: teste dure. Lo sa Vienna che, come spiega il professor Salimbeni nella pagina seguente, ebbe modo di assaggiare di che pasta erano fatti nel 1848, in occasione dell’eroica difesa della fortezza di Osoppo, uno degli episodi purtroppo meno noti del Risorgimento. Lo scrisse mezzo secolo fa, spiegando che i canadesi distinguevano gli italiani «in due grandi categorie: quelli del Friuli e gli altri», Gianfranco Piazzesi. Affascinato, lui, toscano di questo «popolo di emigranti plasmati con sapienza dal parroco: fatti apposta dal buon Dio per rifornire la comunità nazionale di muratori, di carabinieri e di domestiche. Un popolo che risolveva molti problemi e non ne creava nessuno».

Decisero di far le cose a modo loro e le fecero. Senza che ancora esistesse, così come la conosciamo oggi, la Protezione civile. Senza le scorciatoie emergenziali che oggi sono ritenute assolutamente indispensabili. Senza esibizioni muscolari. Senza l’alone mistico di uomini della Provvidenza. Bastò il buon senso e l’efficienza di Giuseppe Zambeletti, il sottosegretario che forse avrebbe potuto dare di più a questo Paese se non lo avessero fatto fuori alla prima occasione. Bastò la saggia decisione andreottiana di delegare il più possibile alla Regione e ai Comuni. Bastò una netta divisione dei compiti settore per settore. Bastò la collaborazione (questa sì una fortuna irripetibile) di quei 57mila militari che in quegli anni in cui c’era ancora la Cortina di ferro erano acquartierati nelle caserme a ridosso della frontiera jugoslava.

Determinante, certo, fu lo spirito dei friulani. Basti ricordare quanto disse anni fa l’allora presidente regionale, il dc Antonio Comelli: «Prima pensammo alle fabbriche, al lavoro, alla produzione. Poi alle case. Ricordo ad esempio che l’anno dopo il terremoto prelevammo 300 o 350 miliardi dal fondo per la ricostruzione per l’autostrada Udine-Tarvisio che era arrivata solo fino a Gemona. La gente era ancora nelle baracche. Pensammo: è giusto farlo, ma questa è la volta che ci linciano. E invece la gente capì: occorreva ripartire abbinando ricostruzione e sviluppo». Una scelta difficile, ma compresa: «Molti rinunciarono ai contributi statali. Chi aveva un danno non troppo grave si vergognava un po’ a chiedere soldi che magari servivano da altre parti». Il contrario di quanto sarebbe accaduto pochi anni dopo in Irpinia con l’allargamento dei comuni colpiti: alla prima conta 36, all’ultima 687. A un certo punto il

Gazzettino confrontò le due catastrofi. Itinerari opposti: fatti 100 i finanziamenti al momento del disastro, sette anni dopo gli stanziamenti per Gemona o Buja erano ridotti a 38, quelli per Sant’Angelo dei Lombardi o Nusco erano saliti a 132.

Di soldi dallo Stato, comunque, anche in Friuli, ne arrivarono: al 31 dicembre ‘ 95, quando la ricostruzione poteva ormai considerarsi conclusa, il pallottoliere si fermò a 12.905 miliardi. Nove miliardi di euro d’oggi. Un settimo dei 66 spesi in Campania. Certo, i friulani ci misero forza e cuore. Ma quanto hanno pesato, sui fallimenti in Belice e in Irpinia, le scelte diametralmente diverse della politica, che certo non possono essere superficialmente addebitate alla «pigrizia» dei siciliani e dei campani?

Marco Fantoni se lo ricorda come fosse ieri mattina, quel 6 maggio. Tutti i capannoni dello stabilimento di Osoppo in cui produceva mobili e pannelli furono devastati dalla botta: «Sulle prime ci venne da piangere: un disastro. Ma era inutile star lì a lagnarci. Era un giovedì sera. Mentre organizzavamo nel piazzale un centro per le roulotte per ospitare le famiglie dei dipendenti, abbiamo cominciato a consolidare con dei tiranti l’unico capannone rimasto in piedi e a portarci i macchinari che ancora potevano essere riparati. Il lunedì mattina ripartimmo con la produzione. Un mese dopo brindammo al primo mobile della rinascita».

Dice che no, non ha chiarissimo se il terremoto abbia dato un’accelerazione allo sviluppo delle aziende della zona e in particolare della sua: «Va’ a saperlo... Eravamo già ben avviati. Fu una sfida, questo sì: dovevamo mostrare di essere più forti della sfortuna». Certo è che al momento della scossa i dipendenti erano 310 e il fatturato di 6 miliardi di lire. Dieci anni dopo, i primi erano saliti a 510 e il secondo a 49. Un’impennata proseguita (360 milioni di euro nel 2007) fino alla grande crisi internazionale.

Fortuna dovuta a una pioggia di aiuti pubblici? «Mica tanto — risponde il figlio Giovanni, già presidente degli industriali friulani —. I contributi a fondo perduto sui danni accertati furono pari al 30% del danno subito per le aziende distrutte e al 20% per quelle danneggiate». Finanziamenti? «Fino a 12 anni con 3 di preammortamento al tasso del 4%. La Regione, certo, faceva da garante. E questo aiutò. I soldi, però, li abbiamo dovuti restituire». Anni buoni, dopo la botta. Buonissimi. Sospira: «Diciamo che per certi aspetti il terremoto più grave forse forse è quello finanziario di questi tempi». Che ha costretto l’azienda a ricorrere in modo massiccio ai contratti di solidarietà. Un destino comune a buona parte delle imprese friulane.

Dice una recentissima relazione degli uffici regionali che la produzione industriale del Friuli-Venezia Giulia è diminuita del 4,7% nel 2008 e addirittura dell’11% nel 2009. Senza risparmiare praticamente nessuno. A partire dal settore del mobile, che da queste parti è sempre stato una locomotiva. All’inizio del 2009 il calo, secondo Edi Snaidero, si aggirava sul 20-25%. Colpa degli ordinativi dai mercati extracomunitari, diminuiti nel 2009 di quasi il 7%. Letteralmente crollate le esportazioni in Russia: -55,8%. Incassata la mazzata più pesante negli Stati Uniti, la società ha reagito buttandosi sul mercato asiatico e lanciando modelli di cucine low cost con l’obiettivo di conquistare una fetta del mercato presidiato dalla Ikea. Auguri.

Nei primi tre mesi del 2010 c’è stata una certa ripresa. E l’aumento tendenziale su base annua della produzione industriale ha toccato punte del 12%. Con una ripresa nei fatturati (precipitati nel 2009 del 13,8%) oltre il 6,2%. Ma dire che la tempesta sia finita non si può. E se un po’ di fiducia sembra essere ritornata, molti imprenditori si leccano ancora le ferite. A fine 2009 il numero delle aziende iscritte alle Camere di commercio della regione era sceso per la prima volta da tanti anni sotto le 100 mila unità. Uno shock: in dodici mesi ne erano sparite 1.629. Con un tasso di mortalità più elevato della media nazionale e la scomparsa nel solo manifatturiero di 289 imprese: dalla siderurgia alla lavorazione dei metalli, dai mobili ai beni di consumo. Con una parallela impennata dei disoccupati: 34.700. Il doppio rispetto a tre anni fa.

Altri, con quei nuvoloni ancora addensati all’orizzonte, la vedrebbero nera. Eppure, dopo essere usciti alla grande dall’apocalisse del 1976, i friulani fanno mostra di ottimismo. Questione di carattere. Quello che colpì anche Riccardo Bacchelli. Un carattere che secondo il grande scrittore sarebbe stato temprato dall’essere sempre vissuti, i friulani, in un’area a cavallo fra il mondo tedesco, quello slavo, quello italiano e in definitiva avendo sempre l’immagine «immanente» di un terremoto, un’invasione, una guerra. Insomma, dall’esser sempre stati «sotto la bocca dei cannoni».