Federico Fubini, Corriere della Sera 4/9/2010, 4 settembre 2010
STUDIA DA LEADER MA COPIA ANCORA I BREVETTI MADE IN ITALY
Cernobio (Como) — Era partita benissimo, anzi in modo ordinario. La solita discussione sulla Cina condita di un’infinità di numeri a doppia cifra. L’abituale miracolo, un’accelerazione inarrestabile raccontata questa volta da Li Guguang, vicedirettore dell’Ufficio di Stato per la proprietà intellettuale a Pechino. La differenza ieri, nella sessione d’apertura del Workshop Ambrosetti di Cernobbio, è che questa è una Cina che non si presenta più solo come base manifatturiera a basso costo. Li Guguang ha presentato il ritratto di un Paese che sale di gamma, fa ricerca, arriva a proteggere esso stesso i propri marchi e le proprie invenzioni.
Nella relazione di Li alla platea non poteva mancare la consueta declinazione statistica del boom. Richieste di brevetti cinesi aumentate in media del 21,5% l’anno nell’ultimo decennio, per un totale di 6,3 milioni di procedure di proprietà intellettuale. Huawei, la società di telecomunicazioni, che vanta attualmente 1.737 richieste di brevetti e batte (nell’ordine) Panasonic, Philips, Toyota, Bosch. Un sistema industriale che non è più solo il principale consumatore globale di carbone o di ferro, ma sa anche innovare e affinare le proprie tecnologie. Insomma Li Guguang ieri ha aggiunto una sfumatura di rispettabilità industriale in più alla vecchia storia cinese. Ma non ha convinto tutti. Giampaolo Galli, direttore generale di Confindustria, ha ribattuto che per gli imprenditori italiani il problema del furto della proprietà intellettuale resta grave. E a dibattito chiuso Mario Boselli, presidente della Camera nazionale della moda italiana, si è innervosito anche di più. «Questo Li Guguang è anche troppo abile — ha attaccato Boselli —. L’esplosione delle richieste di brevetti e marchi in Cina può anche riflettere un tentativo di tipo nuovo di copiare i nostri marchi».
Gli esempi di contraffazioni «creative» non mancano. Farebbero quasi sorridere, se non si trattasse di affari seri per chi ci va di mezzo. La Gewiss, azienda elettrotecnica del bergamasco, ha dovuto ricomprare in Cina il proprio logo che qualcuno aveva fatto depositare presso il locale ufficio dei marchi. Altri produttori tessili cinesi concludono bozze di accordi di delocalizzazione con gli italiani, si fanno aiutare a produrre capi perfetti, quindi lasciando scadere le lettere di credito e restano con il know how senza versato un solo dollaro. Aiutati gratis dai produttori originali a copiare.
Boselli ha accusato: «La contraffazione non sta diminuendo, semmai diventa un problema sempre più serio». E anche l’altro esperto cinese lo ha ammesso. Huang Jing, economista alla National University di Singapore, ha presentato una spiegazione che tiene conto della complessità del potere. «Il governo centrale cerca davvero di punire le imprese che copiano, ma spesso i responsabili politici locali lasciano correre perché hanno interessi diversi». Gli amministratori vengono giudicati da Pechino in base ai punti di crescita dell’economia che riescono ad assicurare, ha spiegato Huang Jing. E nessuno di loro osa ostacolare un’impresa che copia ma produce, versa molte imposte e dà lavoro.
Su un punto almeno Huang Jing e Boselli si sono trovati d’accordo: l’industria italiana, con l’abbigliamento in primo piano, non può comunque fare a meno della Cina. Neanc he c o me mercat o di s bocc o , dat o c he l’export della moda made in Italy verso Pechino è esploso del 124% dal 2000: una frazione del fatturato dell’Italia in Europa o in America, è vero. Ma la sola frazione che cresce.