4 settembre 2010
LA LEZIONE DI BERLINO, NON BASTA L’INDUSTRIA SERVONO EXPORT E FLESSIBILITÀ
[Intervista a Wolf Schuessel]
Cernobio (Como) — L’anno scorso Paul Krugman, appeso al muro il diploma del Nobel, riservò un pensiero per Germania e Austria: quei Paesi hanno puntato tutto solo sull’export — osservò l’economista — dunque sono sull’orlo del collasso ora che la crisi è globale. Ma è meglio non ricordarlo a Wolfgang Schuessel. «Che stupidaggine!» taglia corto, in una pausa dei lavori del Workshop Ambrosetti, il democristiano che fra il 2000 e il 2007 guidò il governo di Vienna.
Il modello tedesco, criticato per un quindicennio, vive la sua rivincita. La sorprende?
«Per niente. Se certi Paesi stanno meglio dopo la crisi, un motivo c’è. Vale per la Germania, ma anche per la Finlandia, la Svizzera, la Repubblica Ceca e l’Austria: queste economie vanno bene perché hanno una buona base industriale. In Germania l’industria pesa per il 24% del Pil, in Finlandia e Svizzera per il 21%. In Grecia è al 9% e anche altri Paesi mediterranei hanno una base bassa». L’Italia non poi così bassa. «L’Italia un po’ meglio, è vero, ma non arriva al 20%. La Gran Bretagna è al 12%, gli Stati Uniti hanno dimezzato in quindici anni la loro base manifatturiera che era al 25%. Ma l’industria è decisiva, perché è il fondamento di tutto il resto. Dà accesso alla tecnologia, all’innovazione, all’istruzione, permette di avere lavoratori qualificati e di sapere cosa accade a livello internazionale: ti fa conoscere il futuro».
Un esempio di queste finestre sul mondo?
«L’acciaio. La Germania oggi produce duemila diversi tipi di acciaio, metà dei quali neanche esistevano cinque anni fa. Quando il mondo ha questa tremenda velocità, non c’è scelta: bisogna farne parte».
Il segreto dunque è esportare verso i mercati emergenti?
«Non solo quelli. La Germania è profondamente integrata nel mondo avanzato. Ma avere un’industria trainata dall’export significa godere i benefici di un mondo che cresce al 4%. Perché diavolo l’Europa non dovrebbe essere parte di questa storia? La Germania e gli altri Paesi che le stanno intorno, ci riescono. La popolazione del mondo crescerà di 2 miliardi nei prossimi decenni, c’è solo da trarne vantaggio».
Contano anche i nuovi tipi di contratti di lavoro a livello aziendale?
«Un altro aspetto positivo del modello tedesco, austriaco e svizzero, è la flessibilità della manodopera. Hanno molto aiutato il kurzarbeit, l’orario corto sussidiato dal governo, ma anche l’elasticità sui turni. Se ci sono più ordini, i lavoratori lavorano di più, con l’accordo dei sindacati. Se poi c’è meno domanda si lavora di meno, ma senza licenziare».
L’allargamento dell’Ue a Est, con il rischio di delocalizzazioni, ha convinto i sindacati?
«Certo, ma è una flessibilità diversa da quella americana basata sull’assumere e licenziare di continuo. Così perdono per strada le competenze professionali. In Germania gli imprenditori tengono i lavoratori qualificati a bordo nelle fasi di stanca, e sono più capaci di ripartire dopo. È parte del loro segreto».
Per gli americani il modello tedesco deprime la domanda interna, aumenta il surplus estero e gli squilibri commerciali.
«Le aziende che esportano hanno in media stipendi più alti del 25% o 30%, perché hanno lavoratori più qualificati. È buono anche per i consumi, no? Questa fissazione di voler eliminare le esportazioni da un modello di crescita, concentrandosi sui consumi, è senza senso. La globalizzazione è opportunità per tutti».