Marco Travaglio, il Fatto Quotidiano 4/9/2010, 4 settembre 2010
L’ULTIMA MATRIOSKA - A
Napoli, città record in Europa per numero di reati, il procuratore Giandomenico Lepore denuncia: “Manca anche la carta per stampare gli atti e il materiale investigativo”, mentre i magistrati, anche quelli anticamorra, vanno al lavoro con mezzi propri o addirittura in treno perché il budget annuale per il carburante delle auto di servizio e di scorta è stato superato al 90% e mancano quattro mesi alla fine dell’anno. In compenso il presidente del Tribunale Carlo Alemi calcola che solo a Napoli la legge sul cosiddetto “processo breve” stecchirà sul colpo 50 mila processi pendenti, senza contare quelli futuri. Con almeno 50 mila colpevoli che la faranno franca e almeno 50 mila vittime che non avranno giustizia. Ma di queste cosucce il sedicente ministro della Giustizia Angelino Al Fano non si occupa: lui infatti, secondo la Costituzione, deve soltanto garantire “l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia” (articolo 110). L’altro giorno, quando l’Anm l’ha invitato a far funzionare la giustizia fornendole i mezzi necessari, lo spensierato Angelino (spensierato nel senso etimologico del termine) l’ha accusata di “difendere la casta dei magistrati”. Come se fare indagini e processi fosse un privilegio castale. Poveretto. Ormai è talmente screditato che prende sberle da tutti, persino da Pecorella: ieri l’on. avv. ha segnalato un paio di effetti collaterali del suo mitico “processo breve”, a tutto danno della difesa, cioè del tanto celebrato “garantismo”: “Pensiamo a un giudizio di primo grado che si è concluso, nei 3 anni di cui parla la norma, con una condanna per l’imputato: se il giudizio d’appello dura più dei 2 anni previsti, che succede? Rimane la condanna in primo grado? Così rischiano le garanzie. Idem se la difesa chiede una perizia che rischia di far slittare i tempi ed estinguere il processo: il giudice rigetterà sicuramente la richiesta, a danno dell’imputato”. Ops, quel genio di Angelino Jolie non ci aveva pensato. Persino B. ormai diffida di lui. Infatti pare stia pensando di abbandonare al suo destino il “processo breve” e di rimpiazzarlo con l’arma segreta, la legge Costa, che prende nome dall’ultimo scudo umano dell’allevamento berlusconiano: Enrico Costa, figlio del vecchio liberale cuneese Raffaele Costa, antesignano delle battaglie contro i privilegi della Casta, purtroppo abbandonate quando lanciò il pargoletto nel firmamento politico. Costa il Breve ha inventato una norma che impedisce al giudice di respingere i testimoni inutili citati dalla difesa e di acquisire le sentenze definitive per non dover dimostrare fatti già consacrati dalla Cassazione. E’ la legge sul “processo lungo”, più consona alle esigenze del premier: così i legali di B., al posto della lista testi, produrranno direttamente l’elenco telefonico, che comprende anche gli abbonati defunti, e il giudice sarà obbligato a sentirli tutti, così i suoi processi (ma anche tutti gli altri) riposeranno in pace per sempre. Siccome il Costa è un ragazzo sveglio, alla domanda “non pensa che la sua legge rallenterà ulteriormente i processi?”, risponde: “Non è detto assolutamente”, anzi “offrendo più certezze potrà avere l’effetto contrario”. Uno che ragiona così farà un carrierone, infatti il giovanotto è già capogruppo del Pdl in commissione giustizia alla Camera. I giornali lo indicano come “ghediniano”. La fauna del centrodestra italiota si arricchisce così di una nuova categoria dello spirito. Un tempo c’erano i pidiellini. Poi si sdoppiarono in berlusconiani e finiani. Ora, in un gioco delle matrioske senza fine, i berlusconiani partoriscono la sottospecie dei ghediniani, da non confondere con gli alfaniani, i pecorelliani, i verdiniani, gli scajoliani, i carfagnani, i dellutrian-manganiani, gli schifaniani. Quando, per partenogenesi, avremo pure i capezzoniani, gli stracquadaniani e i costiani, la scissione dell’atomo sarà cosa fatta. Poi dicono che il governo boicotta la ricerca scientifica.