Gianandrea Piccioli, La Stampa - TuttoLibri 4/9/2010, 4 settembre 2010
E ORA DITECI QUAL È IL ROMANZO FARLOCCO
E ce rifà co’ Angelica, dicono a Roma per indicare i tormentoni ciclici. Quest’estate ne ha visti tanti, dall’ improvvisa scoperta della grandezza degli scrittori italiani under 40 fatta sul Sole 24 ore al «caso Mancuso», il teologo che dopo 15 anni si accorge che il proprietario della casa editrice in cui pubblica i suoi bestseller è un po’ birichino. Ma il tormentone più classico è forse quello su cultura alta e cultura bassa, successo e qualità, intrattenimento e letterarietà. Da quando la cultura si è democratizzata e poi (ma non è la stessa cosa) è diventata di massa e l’editoria artigianale è diventata industria e gli uffici commerciali hanno prevaricato sulle direzioni editoriali, la querelle tra apocalittici e integrati non ha fine. Il saggio di Eco è del 1964, prima c’erano state la scuola di Francoforte, la Dialettica dell’Illuminismo, Benjamin e la perdita dell’aura, la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte e via analizzando.
Preistoria. Tra postmoderno e globalizzazione e contaminazioni e web e trash imperante oggi tutto sembra radicalmente mutato: la società si è sfrangiata, il consumo culturale uniformato a livello planetario e insieme segmentato in nicchie minoritarie, alibi per cultori dei grandi numeri. Il pedagogismo, illuministico o cattolico, è stato sostituito dalla pubblicità e dall’apologia dell’esistente (e non mi pare un gran cambio, anche se Andrea Romano sul Sole celebra nella «rappresentazione non più colpevolizzante dei desideri degli italiani così come essi sono realmente (…) un potenziale di emancipazione degli spiriti animali della nazione»). Ma, se mutano i termini esterni e quantitativi, la querelle resta viva, segno forse di una marginalizzazione residuale della letteratura, come i famosi soldati giapponesi nella giungla.
Segnalo un po’ alla rinfusa, partendo da due libri che non hanno a che fare con le discussioni estive ma possono dare indicazioni in proposito: Inventare il mondo. Teoria e pratica del racconto (Garzanti), di Ferruccio Parazzoli, lasco nella struttura e nell’assemblaggio dei temi ma ricco di spunti acuti, nati dall’esperienza di chi è narratore in proprio e ha anni di lavoro editoriale alle spalle; e il brillante Come funzionano i romanzi. Breve storia delle tecniche narrative per lettori e scrittori (Mondadori) di James Wood, critico del New Yorker, abile e cordiale dipanatore di nodi teorici della letterarietà, edonista di gusto («Leggiamo narrativa perché la narrativa ci piace, ci tocca emotivamente, è bella ecc.: perché è viva e noi siamo vivi».). Ma poi anche saggi come Scritture a perdere. La letteratura degli anni zero (Laterza), di Ferroni, che denunciando l’ «evaporazione di una cultura critica» ha suscitato le obiezioni di Cordelli, provvisoriamente alleato col perfido Moriarty di Ferroni, e cioè Baricco, già bersagliato a pallettoni per i suoi Barbari in un saggio del 2006, Sul banco dei cattivi (Donzelli). Cordelli obietta che «il nuovo secolo non è simile ai due precedenti e che vivere in esso come se non vi fosse stata soluzione di continuità è un’illusione» e che le categorie critiche vanno ritarate su parametri diversi da quelli di Adorno. Segue ampio dibattito, che interseca quello sugli autori italiani di oggi, con interventi di Berardinelli, Cortellessa, Golino, Onofri, Paccagnini, La Porta… Ma il rimpianto Giuseppe Bonura (L’industria del complimento, a c. di A. Zaccuri, Medusa), critico umorale, fulmineo, talvolta ingiusto, ma sempre consapevole di una tradizione, non ha bisogno di ricorrere ai mitici francofortesi per prospettare una «narrativa come forma di conoscenza della realtà e strumento per l’allargamento della sensibilità morale». E ai bei tempi Pampaloni e Milano, senza mai flirtare con ideologismi, pedagogismi, egemonie più o meno reali, son stati un riferimento sicuro per generazioni di lettori. Come Raboni e Baldacci e Siciliano… E ancor oggi Magris o Mondo o La Capria o Segre e altri pochi grandi vecchi.
La discussione si dilata sul web, dove accanto a interventi rancorosi o paranoici si trovano dibattiti più interessanti di molti ospitati sulla carta stampata. A esempio sul blog Lipperatura il film-documentario di Andrea Cortellessa e Luca Archibugi, Senza scrittori, sullo strapotere dei grandi gruppi editoriali e degli uffici commerciali a danno della letteratura «vera», ha innestato un’accanita discussione, ampliatasi ulteriormente in un serrato confronto tra Wu Ming e Cortellessa stesso sulla «letterarietà». Su un film visto da pochissimi al 4 luglio c’erano già 111 pagine di interventi... E la denuncia dell’ industria culturale di massa è ripresa con buoni argomenti, estesi anche al cinema, da Silvia Ballestra nel primo numero del nuovo Alfabeta.
Da questa parzialissima rassegna si può ipotizzare una svolta? Si vede qualche crepa in un sistema informativo citofono dei potentati di ogni genere (anche l’industria culturale lo è)? Non credo. Ma sono possibili alcune considerazioni.
1) E’ vero che l’universo culturale è cambiato. Baricco indulge forse troppo ai suoi barbari, la democratizzazione rischia di trasformarsi in proletarizzazione, il consumo non è di per sé sinonimo di qualità (e su questo Arbasino ha scritto cose più gustose del vino californiano con cui si aprono I barbari), ma il suo controverso saggio, ripreso in un articolo su Repubblica (26.VIII), quasi a dire: attenti, vi trastullate in polemiche di retroguardia, mondo e senso sono altrove, ha un’utile funzione dissacratoria. Non si può finger di vivere ai tempi di Cecchi e D’Amico, bisogna attrezzarsi criticamente per capire la dislocata significatività delle nostre esperienze. La mia percezione dei brandeburghesi ascoltati sull I-pod nella sala d’attesa della stazione Termini, tra africane in costume, pensionati italiani e badanti dell’Est è sicuramente diversa da quella del margravio Christian Ludwig ma anche da quella di mio padre.
2) E’ vero che l’editoria si è americanizzata e appiattita sul mercantile. Ne L’esca di Donald E. Westlake (Alacrán) lo scrittore in disgrazia dice all’amico fortunato: «In tutte le librerie delle grandi catene commerciali c’è un computer e il computer dice, per esempio, “delle cinquemila copie del suo ultimo romanzo che abbiamo preso ne abbiamo vendute solo tremilacento, quindi non ordinate più di tremilacinquecento del prossimo”». Il bestseller è ormai un genere a sé, anziché un evento fortunato ma eccezionale. Il libro di Paolo Di Stefano, Potresti anche dirmi grazie (Rizzoli), ne parla ampiamente. Ma vi si confrontano anche concezioni diverse dell’editoria, esemplificabili emblematicamente nelle interviste a Stefano Mauri (l’editore deve intercettare i gusti del pubblico e adeguarvisi) e a Calasso (l’editore deve tener fede alla sua proposta e crearsi un pubblico fedele che progressivamente si amplierà). A questo punto il problema, per i libri di minor tiratura, è la conquista di visibilità su banconi ricolmi di materiale di «intrattenimento aeroportuale», come diceva Bonura. Occorre sostenere le piccole librerie indipendenti, frequentarle, aspettare con pazienza che procurino il libro desiderato. Creare isole di libertà un po’ dappertutto, utilizzare il web come canale di informazione e diffusione, fare guerriglia mediatica (il caso Cortellessa dimostra che è possibile).
3) E’ sempre saggio non essere moralisti o ideologici: tra le pieghe, sostiene con ragione Carla Benedetti, anche i grandi gruppi pubblicano cose ottime. Solo che le trascurano o non le sostengono: si capisce che le pubblicano con sofferenza. Ma anche nella produzione mercantile ci sono autori di buon livello. Oreste Del Buono diceva che se la vita è una prigione è doveroso evadere, magari con un bel thriller. L’essenziale è non contrabbandare come alta la letteratura di genere: sono diverse le finalità ed è bene dichiararle anziché confondere Camilleri con Gadda. I giornali dovrebbero svincolarsi dal modello televisivo e dotarsi nuovamente di un’informazione culturale e di una critica che distinguano chiaramente tra prodotto farlocco e prodotto buono, tra intrattenimento ed estetica, se questa parola ha ancora senso. Per vini e ristoranti nessuno si sogna di raccomandare il vino in cartone o i bar della pausa pranzo (che pure assolvono a un’ utile funzione), non si capisce perché farlo per i libri. Non è che il pubblico non vuole «annoiarsi», come sostengono amministratori, direttori generali, assessori vari: quando ha un’alternativa di solito sa scegliere. E anche oggi non mancano critici di valore, anche nella generazione di mezzo, anche tra i giovani: magari non hanno l’autorevolezza di quelli di una volta, ma non è colpa loro: l’epoca non lo consente. Non si pretendono teorizzazioni o sistemi generali, più adeguati a un ambito accademico che alle pagine di un quotidiano: solo un orientamento utile al lettore e all’autore. E per questo un collegamento tra storia e invenzione, testo e contesto, parola e lingua, critica ed esegesi. In sintesi, fare storia del presente. Perché non provare?