Paolo Bianchi, Libero 2/9/2010, 2 settembre 2010
AGATHA CHRISTIE
Settantatre quaderni, alcuni fitti di appunti, anche per 200 pagine, altri quasi vuoti. È cronologicamente l’ultima eredità di Agatha Mary Clarissa Miller, assai più nota come Agatha Christie, la scrittrice inglese di detective story conosciuta in tutto il mondo per la straordinaria fortuna della sua opera. Un suo grande ammiratore, diciamo pure un fanatico, ma in senso buono, lo studioso irlandese John Curran, ha da poco completato un’opera che lascerà sbalorditi i più affezionati lettori delle storie di colei che inventò tra l’altro Miss Marple e Hercule Poirot. Curran fu invitato l’11 novembre del 2005 a Greenway House, nel Devon, la casa dove la Christie abitò e dove abitarono anche la figlia e il genero. Alla loro morte, il nipote Mathew Prichard l’aveva ceduta al National Trust, ente pubblico che l’ha riaperta ai visitatori. Ma volle aprire a Curran le porte di una stanzetta di tre metri per due dove, tra cimeli vari, in uno scatolone erano conservati i quaderni.
Da allora Curran ha lavorato per quattro anni, analizzando pagina per pagina un materiale in apparenza caotico, fogli fitti di calligrafia indecifrabile, punteggiati di schemi e disegni, costellati di punti interrogativi e puntini di sospensione. Già qualcuno aveva tentato di mettere ordine in quel guazzabuglio, ma invano. In 50 anni di attività, la signora del giallo sembrava non aver mai trovato un metodo chiaro per esporre a se stessa le coordinate delle storie che andava raccontando.
Il lavoro minuzioso di Curran ha risvegliato tuttavia l’interesse della casa editrice Harper Collins e, per l’edizione italiana, della Mondadori, che pubblica questo lavoro con il titolo I quaderni segreti di Agatha Christie (pp. 402, euro 13, traduzione di Diana Fonticoli).
Questi quaderni sono stati in effetti tenuti segreti o quasi dalla stessa Christie, che nella sua autobiografia, uscita postuma nel 1977, scriveva: «... l’idea c’è e io mi precipito a scriverla su un quaderno. Fin qui tutto bene, il guaio è che poi perdo il quaderno». Ma naturalmente non era vero. Questi taccuini, dalle copertine nere o colorate o marmorizzate, dai diversi formati e dalla carta non sempre di buona qualità (specie durante la guerra), polverosi e macchiati, purtroppo lacunosi, sottoposti a un’indagine accurata hanno portato alla luce il mistero della sua tecnica. In un certo senso, la signora non aveva un metodo. Il suo processo creativo era sregolato e casuale. Ma poi, quando c’era da venire al dunque, non tralasciava nessuna possibilità. La sua fantasia metteva in campo un tema e poi lo rivoltava in infinite varianti. Fu lei stessa a dichiarare: «Prima di tutto bisogna pensare a una trama e, quando la si è pensata, bisogna costringersi con la forza a mettersi seduti e a scriverla. Tutto qui».
I quaderni non seguono un ordine consequenziale. Erano lì, a disposizione, la signora ne prendeva uno a caso, lo apriva a caso e iniziava a scriverci sopra ogni genere di appunti riguardanti i personaggi, la vicenda, i possibili sviluppi e, naturalmente, l’assassino. Nella scelta dell’assassino mostrava quella che Curran definisce una «spietatezza creativa». In altre parole, non si lasciava mai fuorviare dalla facile tentazione di ricorrere a luoghi comuni. Quelli li riservava ai suoi lettori, ma per depistarli. Lo stesso con la vittima. «Chi faccio morire?», chiedeva a se stessa. La risposta non poteva mai essere scontata. In Dieci piccoli indiani, infatti, fa morire tutti. Il libro, del 1939, si intitolava Ten Little Niggers, vale a dire “Dieci piccoli negretti” (che è il titolo di una filastrocca), ma in seguito fu ribattezzato in altro modo, per motivi di correttezza politica. Un bigottismo sconosciuto all’autrice. La signora puntava anzi sui cliché della piccola borghesia (ufficiali dell’esercito in pensione bonari, mogli remissive, avvocati brillanti) per fornire colpi di scena spiazzanti. La realtà non è mai quella che sembra. Beh, quasi mai.
Sarebbe stato impossibile pubblicare i quaderni così come sono. Lo sforzo di Curren è appunto questo. Nella quasi totale mancanza di date, dove a considerazioni sulle decisioni di Miss Marple si alternano liste di regali per Natale, a frasi lucide e lapidarie come «i bambini non amano le domande dirette» si susseguono elenchi con i punteggi del bridge giocato in famiglia, chiunque avrebbe gettato la spugna. Il curatore invece ha ricostruito e ha tematizzato gli appunti, identificando dove possibile le opere a cui sono riferiti e poi suddividendoli per grandi argomenti. Esempio: “Inizio della carriera”, oppure “Delitti delle filastrocche”, o ancora “Delitti a bordo” o “Delitti retrospettivi”.
Il primo romanzo di genere delittuoso della Christie è Poirot a Styles Court, pubblicato nel 1920, e già rivela un talento eccezionale. In realtà l’autrice si muoveva a partire da poche grandi aree concettuali, salvo articolarle in una serie vastissima di varianti, ma usando a volte a distanza di decenni gli stessi trucchi, e perfino trame molto simili. In questo, i quaderni permettono di ricostruire il filo comune della sua visione. Non si tirava indietro se c’era da ispirarsi alla realtà, e infatti preparò lo schema di una vicenda simile alla vera storia di Ruth Ellis, l’ultima donna condannata a morte nel Regno Unito per omicidio, e impiccata nel 1955. Ma il racconto non vide mai la luce.
«Sì, meglio far morire il dentista», scriveva la signora durante la stesura di Poirot non sbaglia. Ma anche: «I sospetti del lettore (intelligente!) devono essere indirizzati verso l’infermiera». O ancora: «Un ministro? Complicato, perché non so nulla sui ministri». Una gran bella lezione a quanti pensano che la letteratura sia solo ispirazione che scende dall’alto.