Marina Forti, il manifesto 3/9/2010, 3 settembre 2010
UNA FINANZA PER IL CLIMA
La finanza per il clima è stato uno dei temi principali del disastroso summit di Copenhagen dello scorso dicembre. Come su altre questioni calde, nella capitale danese non si riuscì a raggiungere un’intesa seria, chiesta con grande insistenza dai paesi del Sud del mondo, ovvero quelli più danneggiati dagli effetti dei cambiamenti climatici. Dal momento che le responsabilità della febbre del pianeta è da imputare al Nord ricco e sviluppato del globo, è a quest’ultimo che si chiede di garantire fondi per le misure di adattamento e mitigazione. Da oggi i rappresentanti di una quarantina di governi si riuniscono a Ginevra per ritornare sull’argomento, in un meeting co-promosso da Svizzera e Messico (che a dicembre organizzerà in una blindatissima Cancun la sedicesima Conferenza delle Parti della Convenzione sul Clima). E’ un incontro ristretto e al di fuori del contesto Onu, e già questo non promette bene. L’ordine del giorno è pericolosamente sbilanciato a favore di ampliare il ruolo del settore privato in proposito. I paesi industrializzati non sembrano voler far fronte alle loro responsabilità, che sono enormi. Si parla di una cifra di 100 miliardi di dollari l’anno per la finanza per il clima: ma non basterà certo a avviare le misure necessarie a stabilizzare le emissioni di gas di serra, non è sostenuta da una base scientifica - ed è ben lontana dai 30 miliardi per il triennio 2010-12 proposti a Copenhagen. Servono molti più soldi, forse addirittura il quadruplo. Di recente Cina e G77 (il gruppo dei paesi del Sud) hanno chiesto che il Nord impegni l’1,5 % del suo prodotto lordo complessivo, e c’è chi sostiene che bisogna arrivare addirittura al 6 % per evitare catastrofi peggiori di quelle che già adesso sconquassano intere regioni - basti pensare a quanto accaduto ad agosto in Pakistan.
Il dato di fatto è che nel 2007, al Vertice sul clima di Bali, i paesi ricchi si impegnarono a garantire il contributo finanziario e il trasferimento di tecnologie necessari mentre adesso, adducendo anche la scusa della crisi, si tirano indietro e nella migliore delle ipotesi provano a riciclare promesse fatte in passato. Cercano di delegare ai soggetti privati o puntare su uno strumento rivelatosi fin qui fallimentare come quello del mercato dei crediti di carbonio. Una scappatoia che, così come strutturata ora, nei prossimi anni permetterà ai paesi ricchi di ridurre le loro emissioni di gas serra solo sulla carta, mentre nella realtà continueranno ad aumentare.
Le organizzazioni della società civile internazionale, tra cui anche l’italiana Campagna per la riforma della Banca mondiale, Jubilee South e Third World Network, chiedono che l’agenda della finanza per il clima sia completamente rivista e si ispiri alla road map di Bali. Temono ad esempio che il denaro che in qualche modo sarà raccolto venga poi gestito da istituzioni dal pessimo record ambientale come la Banca mondiale e non dalle Nazioni Unite. Nel documento pubblicato sul loro nuovo sito, www.globalclimatefund.org, chiedono che il Fondo globale per il clima sia dotato di un consiglio direttivo con equa rappresentanza di tutte le regioni del mondo e in particolar modo dei paesi più vulnerabili al surriscaldamento globale, un segretariato indipendente e una serie di comitati tecnici in grado realizzare le procedure di mitigazione, adattamento e trasferimento delle tecnologie. L’incontro di Ginevra non sembra un primo passo in questa direzione.