PAOLO BERIZZI, la Repubblica 3/9/2010, 3 settembre 2010
PASTA, SUGO E MOZZARELLA 60 MILIARDI "MANGIATI" DAL FINTO MADE IN ITALY
Fossero "solo" i pomodori, le mozzarelle, il prosciutto, il latte. No, c´è anche la pasta. Manco quella è più "made in Italy". Ci stanno fregando tutto, anche il piatto nazionale per eccellenza. O forse ci stanno fregando e basta. Quasi la metà dei nostri prodotti da tavola, anche se "batte" ufficialmente bandiera tricolore - sul marchio, sull´etichetta, nell´ammiccante descrizione intrisa di orgoglio nazionale - proviene dall´estero; o è lavorata con materia prima che arriva da oltre confine. Dai paesi del Nord e dall´America latina. Dal cuore del vecchio continente e dall´Est europeo. Partono da lontano le derrate dell´import farlocco: in molti casi, sembra incredibile, dai territori dei nostri competitor diretti. Quelli a cui poi rivendiamo il made in Italy. È merce che si mischia a quella "ufficiale", quella effettivamente proposta come non autoctona. Alla fine del suo viaggio, dopo lunghe tratte per mare o per terra, può finire nel grande imbuto dei 129 prodotti Dop (denominazione origine protetta) e dei 77 Igp (indicazione geografica protetta) che vanta oggi l´Italia. È un giro d´affari che, tra inganni e sotterfugi, vale ogni anno 60 miliardi. Che alleggerisce del 40% le spese di produzione delle nostre imprese alimentari. E che, a seconda dei casi, in una specie di girandola impazzita, o ne fa lievitare gli utili - aprendo il paracadute in tempo di crisi e di diminuzione dei consumi - oppure, al contrario, taglia le gambe. Ma come si diffonde il fenomeno del nostrano-importato? E che effetti ha sull´agroeconomia? E sulla nostra spesa?
Paradosso all´italiana
È il paradosso del paese degli acronimi della tavola (Doc, Dop, Igp): marchia le confezioni, promuove la filiera agricola certificata, e intanto tollera che da porti e valichi di frontiera entri di tutto. Risultato: due prosciutti su tre venduti come italiani sono ottenuti da maiali allevati all´estero; tre cartoni di latte (a lunga conservazione) su quattro sono stranieri; un terzo della nostra pasta è fatta di grano importato; il 50% delle mozzarelle derivano da cagliate o latte straniero, come ha confermato il recente allarme per la mozzarella blu (il 68% del latte importato viene da Germania, Francia e Austria; ogni giorno dalle frontiere italiane passano, in entrata, 3,5 milioni di litri di latte sterile); e poi l´italianissima pummarola, ormai più che altro cinese, visto che il Dragone nel 2010 ci ha inondato di 100 milioni di chili di pomodoro. Prontamente spacciati per roba tricolore.
«È un furto del quale stiamo vivendo gli effetti drammatici - dice Sergio Marini, presidente di Coldiretti - . Il taroccamento dei prodotti alimentari è un fenomeno doppio. Da una parte c´è l´utilizzo a livello nazionale di materie prime importate da vendere come italiane. E questo avviene a causa della mancanza dell´obbligo di indicare l´origine in etichetta. Penso per esempio ai pecorini, a eccezione di quello romano, e al pomodoro. Dall´altra c´è la pirateria internazionale che utilizza impropriamente parole, colori, località, immagini, denominazioni, ricette che si richiamano all´Italia per prodotti che non hanno nulla a che vedere con la penisola». In entrambi i casi, è evidente, il guadagno è enorme. «Che sia un pirata del cibo o una multinazionale famosa, il principio di base è lo stesso: lucrarci sopra il più possibile. Prendendo in giro i consumatori alla faccia del made in Italy».
Al di sopra di ogni sospetto
Non solo e non più i tarocchi "tradizionali", la passata di pomodoro cinese, la mortadella bovina, i finti San Marzano e Pachino, il Brunello rumeno, le mozzarelle lituane. Nella catena di smontaggio dell´italian food - per la gioia, forse, di chi in ogni angolo del mondo copia i nostri sapori e ci guarda come il paradiso dei buongustai - vengono immesse ogni giorno tonnellate di cibi di cui nessuno sospetterebbe. Troppo tradizionali. Troppo "italiani" per destare dubbi. Ma attraverso quali "porte" finiscono sulle nostre tavole i prodotti "ingannevoli"?
Le strade dell´import
Le rotte sono quelle delle importazioni riconosciute. Quelle che seguono i canali dell´approvvigionamento delle imprese che comprano all´estero e vendono come "estero". Ma dietro la facciata dell´ufficialità c´è il binario parallelo utilizzato dai furbetti della tavola: imprenditori, anche grossi e blasonati, che si rivolgono a produzioni non italiane acquistando a prezzi inferiori anche del 65-70%. E rivendendo alla grande dopo il "lavaggio" dell´etichettatura. Non è una pratica illegale. Ma è un danno serio a allevatori, produttori, e all´immagine del (quasi) made in Italy. I fiumi di merce importata sfociano nel mare grande della nostra rinomata dispensa alimentare. Risalendo la corrente incrociano l´altro grande affluente che nessuno riesce a fermare: i falsi fatti all´estero. Il cancro delle imitazioni che, emulando l´Italia, la aggrediscono da fuori. Lontano dalla penisola sono falsi tre prodotti alimentari italiani su quattro. «È un problema grave, ma va affrontato con calma e se possibile con un po´ di leggerezza - dice Oscar Farinetti, l´inventore di Eataly, il supermercato del gusto diventato una Mecca per tutti i buongustai, ultimo sbarco New York - . Per fermarlo non servono leggi razziali tipo ventennio ma un lavoro di comunicazione. Senza esagerare nell´orgoglio dobbiamo affermare la nostra identità forte, l´originalità del prodotto. E comunque quando ti imitano vuol dire che funzioni. Sulle importazioni dico invece: mai fermare le merci quando sono di qualità. Scambio delle merce uguale scambio di culture. Non voglio tornare al medioevo e al tempo dei comuni». Già, eppure l´insidia c´è. Presente l´italiano che si siede a tavola orgoglioso dei suoi prodotti? Ecco: spesso prende delle cantonate e nemmeno se lo immagina. La pasta? Arriva dalla Grecia. Il grano? Dal Quebec e dalle isole Barbados. Il prosciutto? Dai paesi scandinavi. Il latte per formaggi e mozzarelle? Da Germania, Francia, Lituania, Polonia. Le cagliate? Persino dalla Bolivia. E chi mai si sognerebbe di pensare che alcuni tipi di mela proposta come nostrana partono dall´Argentina? O che i kiwi, di cui siamo grandi produttori, ce li fornisce il Cile?
Mentre il Parlamento italiano non ha ancora approvato (quello europeo sì) il disegno di legge sull´etichettatura obbligatoria di origine degli alimenti (fortemente voluta dall´ex ministro dell´agricoltura Luca Zaia che della battaglia per il Made in Italy aveva fatto quasi un´ossessione personale), le maglie dei confini italiani appaiono sempre più slabbrate: e molte aziende, alcune vere e proprie multinazionali che fanno dell´italianità un caposaldo del proprio marketing, ci marciano allegramente. Il mercato si trasforma, è vero, ma molte delle mutazioni a cui stiamo assistendo sembrano vere e proprie truffe.
Ma come avvengono i magheggi delle importazioni? È possibile scoprirli?
I camion fantasma
Per sollevare il velo sui trucchi non occorre andare alla fonte, nei luoghi dove viene prodotta la merce. Basta tenere d´occhio i varchi d´accesso. E i passaggi dei tir che trasportano i prodotti spacciati come nazionali. Quando sbarcano nei nostri porti, a Sud o nel centro Italia, o quando, a Nord, attraversano i valichi di frontiera. Quest´estate Coldiretti ha messo in campo una squadra di 007 anti-tarocchi. Li ha sguinzagliati nei punti nevralgici dell´import alimentare: via terra e via mare. I valichi del Brennero e del Frejus, i porti di Ancona, Messina, Gioia Tauro, Bari. Con auto, furgoni, barche, ha presidiato gli avamposti e ha registrato le "strane" importazioni. Alcune attivate da noti marchi, colossi del food italiano.
La lista della spesa (fuori porta) comprende un po´ di tutto. Il prosciutto. Al Brennero e al Frejus sono stati scoperte quasi 15 mila cosce di maiale provenienti da Olanda Danimarca e Germania, e destinate a diventare prosciutti italiani. Alcuni carichi - seguiti fino a destinazione - erano diretti a Langhirano, nella patria del prosciutto; altri a Modena, nel celebre distretto dei salumi; altri ancora in un grosso salumificio in provincia di Como. Verso Vicenza e Novara viaggiavano copiose derrate di formaggio. Marchi italiani, ma provenienti dalla Germania. Lo stesso paese da cui sono arrivati decine di migliaia di litri di latte da nazionalizzare, confezionare e trasformare in formaggi. Come il pesto, sì, pesto tedesco adottato dai soliti italiani.
C´è poco da scommettere anche sull´origine della pasta, uno dei simboli dello stivale in tavola. Il 7 luglio un camion carico di 20 tonnellate di pasta "italiana" è sbarcato al porto di Ancona proveniente dalla Grecia. Ci ha impiegato oltre 24 ore per coprire i 300 chilometri che separano la città del Conero da Parma. Il carico era destinato a una noto marchio. Come le migliaia di tonnellate di grano sbarcate a Bari: la nave Federal Danube, battente bandiera cipriota, era partita dal Quebec; la Pyrgos da Antigua-Barbados. Tra mele argentine e kiwi cileni, paste filate partite dal cuore dell´Europa e dirette in Puglia, le sentinelle di Coldiretti hanno fotografato in presa diretta il lato b del nostro import. Lo stesso scenario che ha fatto da sfondo allo scandalo delle mozzarelle blu. Il 50% di quelle in vendita sono fatte con latte o addirittura cagliate provenienti dall´estero. Ma nessuno lo sa perché non è obbligatorio indicarlo in etichetta. Nel 2009 si stima che siano entrati in Italia 8,8 miliardi di chili in equivalente latte (latte liquido, panna, cagliate, polveri, formaggi, yogourt e altro) utilizzati in latticini e formaggi all´insaputa dei consumatori e a danno degli allevatori. Rilevanti sono le provenienze da paesi dell´est come Polonia, Slovenia, Ungheria e Lituania. Quest´ultima nel 2009 ha aumentato le importazioni verso il nostro paese del 20% in più rispetto all´anno prima. Tra i grande beneficiari ci sono gli stabilimenti della Lombardia, dove si produce il 40% del latte italiano. Ma come arginare l´invasione dei prodotti che vengono poi nazionalizzati? E´ possibile difendere il prodotto italiano dalle metastasi che lo divorano dal suo interno?
Una nuova legge
«Va sostenuta in Parlamento l´approvazione del disegno di legge sull´etichettatura obbligatoria di origine degli alimenti (già ampiamente condivisa in Senato sia in commissione agricoltura che in aula) - ragiona ancora Sergio Marini - Un segnale incoraggiante è appena arrivato dal Parlamento europeo che ha votato finalmente a favore dell´obbligo di indicare il luogo di origine/provenienza per carne, ortofrutticoli freschi e prodotti lattiero caseari». Lo stato dell´arte è un mezzo ginepraio. Alcuni cibi si portano addosso l´etichettatura con l´indicazione di provenienza; altri ne sono privi. Del primo elenco fanno parte, o dovrebbero farne, la carne di pollo e derivati e la carne bovina, la frutta e le verdure fresche, le uova, il miele, la passata di pomodoro, il latte fresco, il pesce e l´extravergine d´oliva. Nel secondo troviamo la pasta, la carne di maiale e i salumi, la carne di coniglio, di pecora e di agnello, la frutta e verdura trasformata, i derivati del pomodoro diversi dalla passata, i formaggi, i derivati dei cereali (pane, pasta). Un bel paniere sul quale nessuno può garantire e dunque nessuno, in teoria, è garantito. E´ qui che agiscono i banditi della tavola: minimo investimento, massimo profitto. E un bel arrivederci all´eccellenza italiana.