Ugo Tramballi, Il Sole 24 Ore 3/9/2010, 3 settembre 2010
TANTO SCETTICISMO MA INTESA POSSIBILE
Come a Hollywood così a Washington, i sequel non emozionano mai quanto il primo film. Ieri Obama, Netanyahu e Abu Mazen si sforzavano d’impostare le loro maschere sulla corda drammatica che l’occasione imponeva. Ma non riuscivano a dare quell’insieme di gioia, stupore, timore e furbizia che 17 anni prima sulla stessa quinta della Casa Bianca avevano saputo offrire nella versione originale del "Processo di pace" quattro giganti della recitazione politica: Yitzhak Rabin, Shimon Peres, Bill Clinton e Yasser Arafat.
Barack Obama è talentuoso e ha coraggio ma per ora è solo un buon imitatore di Clinton. Bibi Netanyahu ha citato Isaia ma Rabin l’Ecclesiaste: «C’è un tempo per uccidere e un tempo per guarire ». E Abu Mazen, educato all’Università Lumumba di Mosca, è troppo opaco e onesto per avvicinarsi ai timbri recitativi del re delle scene tragiche e farsesche che fu Arafat. Il già visto di ieri ha la forza di uccidere la speranza prima ancora che i negoziatori s’infrangano sui veri ostacoli del processo di pace fra israeliani e palestinesi.
Eppure ci sono delle ragioni per credere che, contro ogni previsione, questa sia la volta buona. Non la pace definitiva in un anno ma qualcosa di simile: un accordo solido, fondamenta che permettano di costruirci sopra la convivenza pacifica fra due paure, due aspirazioni e due stati. Non in 12 mesi ma nemmeno in tempi biblici. Alcuni elementi ci permettono di credere.
Prima di tutto un fatto statistico. Non esiste nella storia un conflitto che duri per sempre: c’è stata la Guerra dei trent’anni, la Guerra dei cent’anni, mai la Guerra infinita. Quella fra ebrei e arabi, israeliani e palestinesi, è incominciata nella seconda metà del XIX secolo, con modalità diverse ha attraversato tutto il XX e nel decimo anno del XXI secolo è ancora attiva. Come dice Shlomo Ben Ami, accademico ed ex ministro degli Esteri, intrappolati fra quello che era politicamente possibile e ciò che era invece richiesto per una pace, «israeliani e palestinesi hanno semplicemente imparato a vivere senza una soluzione». Non può essere così per sempre.
La seconda speranza è che israeliani e palestinesi ora si conoscono. Nel 1993 a Washington, nella prima rappresentazione di un processo di pace, i due nemici vi partecipavano come astronauti in viaggio verso Marte. Si erano scontrati, massacrati ma non si erano mai parlati né ascoltati. Le cronache quotidiane riportate dai giornali non devono ingannare: per quanto da allora si sia continuato a combattere, quelli che furono chiamati Accordi di Oslo avevano chiarito i termini del problema e i due nemici incominciavano a riconoscersi. Gli israeliani capivano che non avrebbero mai sconfitto il popolo palestinese e i palestinesi che non avrebbero mai ributtato gli ebrei in mare. Anche chi continua a rifiutare questa evidenza sa che è così.
Da ultimo c’è la forza interiore del processo di pace. Colpito dall’ostilità e anche dalla sfortuna (morte degli eroi, ictus improvvisi, crisi di governo, scandali, l’israeliano giusto quando comandava il palestinese sbagliato e viceversa), il dialogo ha comunque saputo produrre qualcosa d’ineluttabile. Arafat era un guerrigliero ma spesso è stato costretto ad essere statista. Ariel Sharon, il conquistatore di terra araba, si è ritirato da Gaza e se ne sarebbe andato da molte parti della Cisgiordania se non fosse stato colto dal male.Perfino Netanyahu premier è diverso da Bibi capopopolo dell’opposizione.
Anche George Bush dopo due guerre mediorientali ha cercato ad Annapolis, colpevolmente in ritardo alla fine del suo mandato, una soluzione fra israeliani e palestinesi. Perché la fama è qui, nel conflitto originale.
Vincere o perdere una guerra in Medio Oriente non garantisce il ricordo imperituro. Ne sono state fatte troppe, sono ormai gesta scontate. Se vuoi entrare nella Storia - il sogno inconfessato di ogni politico - è la pace che devi conquistare in quella terra non più grande dell’Emilia Romagna, eppure così straordinaria.