Stefano Vastano e Luca Neri, L’espresso 9/9/2010, 9 settembre 2010
IL SINDACATO CHE PIACE A MARCHIONNE (GERMANIA E USA)
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Sergio Marchionne invoca un nuovo patto sociale all’assemblea di CL a Rimini e pensa alla riuscitissima luna di miele con il sindacato Chrysler; Alex Weber, capo della tedesca Bundesbank, loda la formula delle intese fabbrica per fabbrica che hanno permesso al suo paese di ripartire prima e con più energia di tutti gli altri verso la ripresa, e promuove la ricetta del lavoro tedesca di fronte agli economisti di tutto il mondo riuniti a Jackson Hole. Visti dall’Italia impiombata dai veti della Fiom e avvelenata dal solco che divide Cgil da un lato e Cisl e Uil dall’altro, gli esempi di relazioni industriali che vengono da mondi così diversi possono servire. Soprattutto per testare come i grandi modelli capitalistici del secolo passato, quello renano dei giganti bancario-industriali e quello anglo-sassone della finanza (e delle sue bolle) e del profitto individuale siano riusciti entrambi a riformarsi in funzione anti-crisi. E da noi? Da noi il dibattito tra la tutela dei diritti - sindacali, individuali - acquisiti e l’evoluzione dello stato sociale si è fermato a Melfi e Pomigliano.
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La cancelliera Angela Merkel, come recita la costituzione tedesca, "determina i lineamenti della politica". Sull’azienda-Germania ad avere un peso simile è un uomo solo: Berthold Huber, da tre anni presidente di Ig-Metall, il sindacato che riunisce sotto un’unica sigla sia i metalmeccanici che i lavoratori delle quattro ruote e dell’elettronica. Come dire il cuore dell’industria tedesca. Al mondo non c’è associazione sindacale più potente: ben 2,3 milioni di iscritti sfilano dietro le bandiere rosse della sua federazione. E il sessantenne Huber, uno che a 28 anni già dirigeva i consigli di fabbrica ad Ulm, la sua città natale nella regione dell’auto, è consapevole del potere oggi più che mai concentrato nelle sue mani. "Se la Germania sta uscendo dalla crisi", dice con orgoglio dalla centrale Ig-Metall a Francoforte, "si deve alla moderazione della nostra politica salariale".
Nel 2009 il costo del lavoro è salito in Germania del 4 per cento. E l’imprenditore tedesco l’anno scorso ha sborsato in media per un’ora di lavoro 31 euro; solo in Danimarca (dove un’ora di lavoro è costata nel 2009 sui 37 euro), in Belgio (35,60 euro) o in Francia (32,90) il lavoro è più caro. Il che però non vuol dire che i lavoratori tedeschi abbiano guadagnato di più: per la prima volta dal 1949, anzi dalla fondazione della Repubblica Federale, i salari netti sono diminuiti dello 0,4 per cento. Nonostante ciò, i lavoratori tedeschi hanno sopportato quasi stoicamente e senza nemmeno un’ora di sciopero, rispetto alla Francia o all’Italia, questo effetto della crisi. La spiegazione? Sta nell’essenza del modello tedesco, in quella concertazione aziendale centrata sul dialogo e sul compromesso continuo fra sindacati, impresa (e governo) che consente all’azienda-Germania, agli operai come ai manager, di superare meglio delle altre nazioni i momenti di crisi. La versione che Berthold Huber dà della pratica di questo complicato modello è in realtà più che semplice: "Per conservare i posti di lavoro", spiega, "siamo ricorsi l’anno scorso al lavoro corto". Il "kurze Arbeit" è uno strumento che consente agli imprenditori di essere molto flessibili sia con gli orari sia con il salario, e di farlo rispettando le singole realtà aziendali. Ad esempio, in una piccola industria di mobili nei pressi di Stoccarda, orario di lavoro e salario sono scesi insieme del 30 per cento fino al primo trimestre 2010; l’edilizia si è mantenuta a galla facendo ricorso negli ultimi 18 mesi (il massimo del periodo consentito) alla flessibilità orari-retribuzione. Ma i campioni della flessibilità rimangono i sei impianti tedeschi della Volkswagen con i suoi 100 mila operai: dal modello minimo delle 25 ore settimanali alle normali 35 ore (tre turni per cinque giorni alla settimana), fino al massimo delle 37 ore, attraverso 44 tipologie di turni che ruotano per tutta la settimana tranne la domenica. In cambio di una busta paga che oscilla dai tre ai 4 mila euro lordi.
Oltre 1,2 milioni di lavoratori tedeschi sono entrati così in questa specie di "cassa integrazione ordinaria" (c’è il contributo anch’esso flessibile dello Stato), che ha consentito da un lato alle imprese di ridurre al massimo sia salari che tempi di lavoro evitando la mannaia dei licenziamenti. Ed ora che il made in Germany è ripartito a gonfie vele - a fine giugno gli investimenti sono saliti del 4,7 per cento; le esportazioni all’8 ed il Pil ha superato il 2 per cento - "è giusto", conclude Huber, "che governo e imprese premino gli sforzi fatti dai dipendenti". Come? Riproponendo immediatamente il tema degli aumenti salariali. E chiedendo, in pratica, un incremento del 3 per cento l’anno a partire dalle prossime piattaforme contrattuali.
Kai Carstensen, capo-economista dell’istituto Ifo a Monaco, è il primo a riconoscere che "imprese e sindacati hanno collaborato alla perfezione negli ultimi due anni di crisi". Ma non è solo nelle più recenti trattative che i sindacati hanno accettato sacrifici in busta-paga: dal 1996 ad oggi il costo del lavoro per unità prodotta è cresciuto in Germania solo del 5 per cento. In rapporto alla produttività, il costo del lavoro è salito nello stesso periodo del 30 per cento in Francia, del 60 in Spagna. Lo scorso febbraio poi Huber ha firmato un rinnovo dei contratti all’insegna dell’assoluta modestia: per il 2010 zero-aumenti ai 3,5 milioni di dipendenti nella siderurgia e nell’elettronica in Germania. Unico, magro contentino: un premio extra di 320 euro, che i datori di lavoro verseranno ai lavoratori indipendentemente dai risultati della produzione. Altro frutto della buona norma della cogestione, è stata l’altra idea del "premio-auto", come la chiama Huber. Un premio di rottamazione da 5 miliardi voluto proprio da lui, e su cui il governo Merkel ha stanziato nel 2009 ben 2.500 euro per ogni nuova auto venduta. Non ne hanno approfittato molto i grandi produttori tedeschi, "ma anche con questa misura", rivendica il capo della Ig-Metall, "abbiamo contribuito alla ripresa". Si deve a questo ennesimo impulso alla locomotiva tedesca se l’anno scorso Huber è stato eletto, primo sindacalista Ig-Metall, vice-presidente del Consiglio di sorveglianza della Siemens. "Nella società tedesca di oggi", dice il politologo Franz Walter, "immagine e ruolo del sindacalista si sono rafforzati". Negli anni ’90, la Ig-Metall aveva subito l’emorragia del 10 per cento di iscritti e un calo d’immagine. "Oggi invece", conferma Jörg Köther, portavoce di Ig-Metall a Francoforte, "siamo più che stabili sia come iscritti che nelle imprese". Un recente sondaggio dice che il 35 per cento dei tedeschi ha fiducia nei sindacati (la Cdu della Merkel, al confronto, è al 30 per cento; la Spd sul 27 per cento). A godere la massima stima dei tedeschi è per l’appunto la pratica tutta tedesca della "Mitbestimmung", la cogestione aziendale per cui i sindacati siedono a pari titolo degli azionisti nei vertici dell’impresa: il 74 per cento è convinto sia questo il segreto dei successi dell’azienda-Germania. Anche nel 21 secolo dunque i sindacati sono attori forti del modello tedesco.
Ne sa qualcosa Berthold Huber, che ha festeggiato a marzo il suo sessantesimo compleanno ospite della Merkel al settimo piano della cancelleria. Solo a Josef Ackermann, presidente di Deutsche Bank, la cancelliera aveva riservato lo stesso onore. Meraviglie, si dirà, della concertazione funzionante, oltre che nelle aziende, anche in politica. In effetti, non è solo per i compleanni che la Merkel va a braccetto con i sindacati: a maggio la cancelleria ha presentato a Berlino insieme a Huber la "Piattaforma E-mobilità", stanziando miliardi nello sviluppo dell’auto elettrica. Huber, figlio di un ingegnere, non si reputa un fanatico di motori, ma ritiene che "noi sindacati dobbiamo fare di tutto per lo sviluppo tecnologico e la trasformazione ecologica dell’industria". È precisamente questa la lezione morale che il presidente della Ig-Metall ha distillato dalla crisi. Compito del sindacalista non è, come negli anni ’70, occupare gli impianti, o sabotarne le linee. Ma quello, molto più impegnativo, di preservare a tutti i costi posti di lavoro e competitività dell’industria. "La crisi", ribadisce Huber, "ci ha fatto riconoscere l’importanza dell’industria, e quanto sia sbagliato puntare tutto su azionisti e finanza".
Avranno fatto ingoiare brutti rospi ai dipendenti, ma a forza di salari bassi e orari flessibili, sindacalisti come Huber sono riusciti a tenere a bada lo spettro della disoccupazione: oggi in Germania assilla 3 milioni di senza lavoro, il 7 per cento. Sfascio industriale abnorme e disoccupazione oltre al 20 sono drammi che Huber ha visto coi propri occhi: dal 1990 è stato lui a gestire per la Ig-Metall a Lipsia il tracollo dei fatiscenti Kombinat dell’ex-Rdt, che qualcuno in Germania ha paragonato al "Mezzogiorno" locale.
Difficile poi trovare un sindacalista che sia più longevo e navigato in politica: nel ’99, all’inizio dell’era Schröder, Huber ha siglato il primo "Patto del lavoro" fra governo, sindacati ed impresa (una prima forma di lavoro corto); per poi opporsi fieramente alle riforme di Schröder al welfare. Che non solo fecero perdere, nel 2005, le elezioni alla Spd, ma che da allora hanno spezzato l’asse che faceva ruotare i sindacati intorno ai socialdemocratici. Tanto è vero che oggi è la Merkel a cercare il contatto con Huber.
Se l’azienda-Germania comunque vuole restare competitiva non sono solo i sindacati a stringere più compromessi e gli operai ad accettare sacrifici, è necessario tutto "Un cambio di rotta". S’intitola così il nuovo saggio in cui Huber (che ha studiato filosofia e storia a Francoforte) auspica "un New Deal più sociale, ecologico e democratico per il paese". Per Huber, per esempio, è inammissibile che Josef Ackermann di Deutsche Bank guadagni 10 milioni di euro come prima della crisi. Riportare le entrate dei manager "a livelli eticamente sostenibili", come vuole Huber, è una delle campagne lanciate dalla Ig-Metall. L’altra è far partecipare anche i lavoratori al nuovo miracolo tedesco. "La ripresa", conclude Huber, "non si può reggere sull’unica gamba delle esportazioni made in Germany". Dovrà bilanciarsi anche sul sostegno del consumo: è per questo che, dal prossimo aprile 2011, Huber ha già spuntato il 2,7 per cento in più per i metalmeccanici. Un aumento moderato rispetto al 6 per cento appena richiesto dalla Ig-Metall per il rinnovo del contratto agli 85 mila lavoratori delle acciaierie tedesche. È tempo di presentare il conto, per i sindacati tedeschi, e l’autunno in Germania potrebbe diventare caldo.
Stefano Vastano
La ricetta tedesca
Una organizzazione. L’associazione generale dei sindacati tedeschi, la Dgb, include otto federazioni, dalla Ig-Metall ai sindacati della chimica, al pubblico impiego. Nel 1991 contava oltre 11 milioni di iscritti, alla fine del 2009, 6 milioni. Nel 1960 il 34 per cento dei lavoratori tedeschi risultava iscritto a un sindacato; oggi il 23 per cento.
La cogestione. Le prime forme di Mitbestimmung o cogestione aziendale sono state applicate nel 1952. Ma è nel 1976 (al governo il socialdemocratico Helmut Schmidt) che entra in vigore la forma paritetica della cogestione: a partire da imprese con 2mila dipendenti, la metà dei membri eletti nei Consigli di sorveglianza, l’organo di controllo dell’impresa, sono scelti fra i rappresentanti dei lavoratori. Oggi 760 imprese hanno la forma paritetica di cogestione, e 1700 rappresentanti dei lavoratori siedono nei Consigli.
Rivoluzione orario. Venti anni fa i sindacati hanno introdotto le 35 ore settimanali; nel 1994 è nato il modello Volkswagen: la settimana corta di 28,8 ore o dei 4 giorni di lavoro per evitare 30 mila licenziamenti.
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Non ha scelto la carica emotiva di una folla di tute blu. Per comunicare all’America che il benessere del paese passa per un sindacato forte e maturo, Bob King, neo presidente della United Auto Workers (UAW), la mitica confederazione dei metalmeccanici dell’auto, ha preferito un seminario per top manager, organizzato il 2 agosto dal Center for Automotive Research di Detroit. È qui, circondato dai responsabili della produzione di General Motors, Ford e Chrysler, che ha voluto delineare la sua visione di un "sindacato per il ventunesimo secolo", radicalmente diverso, che non solo accetta globalizzazione e "futuro verde" dell’economia come trend positivi (con un ribaltone di 180 gradi rispetto a due decenni di ortodossie sindacali), ma rivendica come valori fondamentali propri la flessibilità, l’innovazione, la riduzione degli sprechi e dei costi di produzione, per garantire la massima
qualità e sicurezza al più basso prezzo ai consumatori del Made in Usa.
"La Uaw dal ventesimo secolo condivideva con le aziende l’idea che il compito delle imprese fosse pensare solo ai profitti e quello dei sindacati fosse pensare solo ai salari", ha detto King. Tale filosofia era degenerata in rapporti sempre più conflittuali, caratterizzati da una mancanza di fiducia reciproca, e quindi contratti zeppi di regole sempre più complesse e bizantine. "La Uaw del ventunesimo secolo ha dato invece il benvenuto a trasparenza, collaborazione, soluzione creativa dei problemi", ha detto ancora: "Non vediamo più il management come l’avversario. La nostra nuova relazione con i datori di lavoro è costruita su una base di rispetto, condivisione degli obiettivi, missione comune".
Gioco forza, si dirà. Dopotutto, a fine 2007, con il crollo delle vendite provocato dall’arrivo della Grande Recessione, i tre colossi storici dell’auto americana parevano destinati all’estinzione. Senza il piano di salvataggio voluto da Obama, i prestiti pubblici, l’azzeramento dei debiti permesso dalla ristrutturazione di GM e Chrysler, quelle imprese, e quindi anche la Uaw, oggi non esisterebbe più (gli analisti stimano che anche Ford, che ha evitato la bancarotta solo perché aveva ottenuto una linea di credito bancario subito prima del crack finanziario, sarebbe stato travolto dal fallimento a catena dell’indotto).
Ma se King è il primo a riconoscere che lo choc della crisi è stato determinante nell’accelerare la trasformazione del sindacato, così come non perde occasione per ricordare la portata dei sacrifici che i suoi iscritti si sono dovuti accollare (con la perdita di 200 mila posti di lavoro e tagli fra i 7.000 e i 30.000 dollari l’anno nei salari), la vera portata storica della sua visione si può capire solo allargando la prospettiva. In una nazione che non ha mai garantito quelle reti di sicurezza sociale che oggi diamo per scontate in Europa, la Uaw è stata infatti uno dei pilastri su cui la classe operaia americana ha potuto costruire una prosperità da classe media con pochi eguali nel mondo.
Ora, con un tono di voce pacato e gioviale, gli occhialetti squadrati, la camicia blu con il logo del sindacato, Bob King potrebbe essere scambiato per un assistente universitario. La sua ascesa al vertice è stata criticata dai circoli più radicali come un trionfo dell’apparato (era vicepresidente fin dal 1998). Ma non si può liquidarlo come un burocrate. Questo sessantaquattrenne, arrivato in fabbrica dopo il servizio militare per pagarsi gli studi (è laureato in legge), ricorda ancora con commozione l’aiuto che gli fu offerto dagli operai più anziani per superare l’esame di elettricista alla Ford. E quando si appassiona a parlare di giustizia sociale, citando gli imperativi morali appresi crescendo in una famiglia cattolica, non c’è solo bella retorica: la sua fedina penale è zeppa di arresti per azioni di disubbidienza civile, in cause che vanno dalla lotta contro la tortura in Centro America alla solidarietà con i picchetti dei poligrafici.
Per Bob King, quindi, un sindacato pronto a contribuire al successo economico delle imprese non è semplicemente necessario per tutelare i "garantiti" presenti e passati (in fin dei conti, il fondo sanitario e pensionistico della Uaw è oggi l’azionista di maggioranza di Chrysler e possiede una bella fetta di GM). È invece la base da cui lanciare la grande sfida sociale del futuro. Che passa innanzitutto per la sindacalizzazione degli impianti stranieri in America, per poi diventare fonte di ispirazione e di democrazia sindacale in paesi come Cina, Vietnam o Bangladesh, contribuendo alla costruzione di una nuova classe media globale, capace di far da contraltare alla rapacità di un capitalismo senza regole. Idealismo ai confini dell’utopia? Durante una recente intervista tv, a King è stato chiesto come poteva giustificare un contratto che prevede una paga di 14 dollari all’ora per i neo assunti alla Ford, contro i 28 della forza lavoro attuale. Lui, con la flemma di sempre, ha ricordato che per la prima volta in molti anni le divisioni auto dei Big Three operano tutte in nero e hanno superato giapponesi e tedeschi negli indici di qualità. "Quei giovani oggi hanno un futuro", ha detto King, pensando ai neo apprendisti, "perché quando i profitti ricominceranno a salire il sindacato sarà lì, pronto a garantire che siano compensati come meritano".
Luca Neri
Siamo sempre meno Unions
Pochi operai, tanti poliziotti. Poco più del 12 per cento dei dipendenti è iscritto a una "union" (la metà rispetto agli anni ’70). I sindacati sono più deboli nell’industria privata (7,2 per cento), crescono nel settore pubblico (37,4 per cento).
Contro la crisi, ci dividiamo. Una mezza dozzina di sindacati dei servizi ha abbandonato nel 2005 la confederazione nazionale (AFL-CIO), accusata di preoccuparsi solo della tutela delle tute blu di mezza età. Una spaccatura tutt’ora insoluta.
Una riscossa legislativa? In un paese dove i lavoratori devono votare a maggioranza fabbrica per fabbrica per ottenere la tutela di un contratto collettivo, una nuova generazione di attivisti sindacali punta su una legge che renderebbe queste elezioni meno soggette ai ricatti padronali. Finora il Congresso ha tergiversato, sebbene nei sondaggi il 60-70 per cento degli americani affermi di avere un’opinione favorevole del sindacato.