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 2010  settembre 09 Giovedì calendario

GOOD BYE BAGHDAD


È nelle sabbie irachene che per la prima volta si è infranto il sogno neoconservatore della superpotenza solitaria: un’America torreggiante sul resto del mondo come invincibile Impero del Bene. Oggi che Barack Obama, da sempre avverso a quella "stupida" campagna, ha suggellato il (parziale) disimpegno americano dall’Iraq, constatiamo come un’epoca si sia davvero chiusa. Nove anni dopo, l’utopia di George W. Bush, che con la "guerra al terrore" voleva cambiare il mondo per avviarlo verso l’età dell’oro della democrazia globale, evapora nel caos iracheno e nella disfatta afghana. Come molti altri rivoluzionari, Bush e i suoi ideologi neocon hanno scatenato processi che non potevano controllare, che si sono rivoltati contro l’America. Sicché Obama appare oggi come il curatore fallimentare di un paese che non riesce a venire a patti con la fine della sua pretesa di egemonia assoluta.
Del cambio di paradigma si erano accorti già nel 2006 due fra i più acuti critici della campagna di Mesopotamia, John Hulsman e Anatol Lieven: "Ciò che è fallito in Iraq non è stata solo la strategia dell’amministrazione Bush, ma tutto un modo di vedere il mondo, ovvero la fede che l’America sia insieme tanto potente e tanto ovviamente buona da poter diffondere la democrazia; che questa la si possa ottenere con la guerra; che così si proteggano anche specifici interessi nazionali americani; e che tale combinazione sarà naturalmente sostenuta dalla gente di buona volontà dovunque nel mondo, a prescindere dalle tradizioni politiche, dall’appartenenza nazionale, dagli interessi nazionali".
Già negli ultimi due anni dell’amministrazione Bush si era cominciata a intravvedere la correzione di rotta che ora Obama vuole portare a compimento con il ritiro delle truppe Usa dall’Iraq e con l’annunciato disimpegno dall’Afghanistan a partire dal luglio 2011. La macchina americana semplicemente non regge il peso di tanta ambizione. Il collasso di Wall Street e la conseguente crisi economica ne sono la spia più visibile. Insieme è crollata la volontà degli americani: ormai la maggioranza vuole ritirarsi completamente non solo dall’Iraq, ma anche dall’Afghanistan, la "guerra giusta" di Obama. Cinquemila morti, 40 mila feriti, ma soprattutto il debito pubblico fuori controllo e la disoccupazione quasi a due cifre, inducono a un esercizio di modestia. Il surge del generale Petraeus - ossia l’affitto dei capitribù e di altri potenti sunniti perché cessassero di combattere i soldati americani - ha notevolmente ridotto la violenza e soprattutto le perdite americane per un paio d’anni, ma quando Washington ha tagliato lo stipendio ai caporioni locali appena reclutati la curva degli attacchi terroristici ha ripreso a salire. Si è trattato di un tampone, non di una soluzione.
Obama ne è consapevole. Eppure deve cercare di quadrare il cerchio: gestire il ritiro dalle due sfortunate campagne asiatiche salvando la faccia e la credibilità degli Usa nel mondo. Operazione ardua e probabilmente tardiva. Anche perché negli anni del fallito esercizio utopico altre potenze più o meno grandi, dalla Cina alla Russia, dal Brasile alla Turchia, per tacere dell’Iran, hanno imparato che si può dire "no" all’America senza pagarne le conseguenze.
Ma quale Iraq Obama si appresta ad affidare agli iracheni, chiudendo ingloriosamente l’Operazione Iraqi Freedom, scattata nel marzo 2003 con il vittorioso blitz su Baghdad? Proviamo ad allineare i più e i meno e a tracciare un provvisorio bilancio.
Fra i più, spicca la fine del regime di Saddam Hussein. Una delle più sanguinarie dittature mediorientali è stata distrutta senza lasciare troppi rimpianti. In secondo luogo, l’avvio stentato di un percorso verso la democrazia, che per ora non è andato oltre elezioni tutt’altro che "libere e oneste", ma accettabili per gli standard regionali. Una relativa libertà di opinione e (meno) di stampa sta prendendo piede almeno in alcune aree del paese. L’elenco si ferma qui. Tutti gli altri plus sono allo stato potenziale. Buone intenzioni, quando esistono.
Il catalogo dei minus fa rabbrividire. Intanto, il sangue. Non solo quello dei quattromila americani, ma anche dei circa 150 mila iracheni, il cui conto è stato volutamente omesso dai liberatori/occupanti. Poi, la devastazione sociale ed economica. Almeno due milioni di iracheni - tra cui la grande maggioranza dei cristiani e buona parte della borghesia - è fuggita all’estero, per sottrarsi alla miseria o alla morte. In quello che potrebbe diventare uno dei paesi più ricchi della regione grazie alle sue enormi riserve di petrolio (115 miliardi di barili accertati, più del doppio probabili) e di gas (3,17 trilioni di metri cubi), quasi un quarto degli abitanti sono sotto la soglia di povertà. I servizi pubblici, a cominciare dalla corrente elettrica che continua a mancare persino a Baghdad, sono in condizioni pietose. Soprattutto, manca uno Stato. E molto difficilmente se ne ricomporrà uno, stanti le profonde fratture etniche (arabi contro curdi), tribali e confessionali (musulmani sunniti contro sciiti) che segnano il panorama politico e istituzionale del "nuovo Iraq". Sei mesi dopo le elezioni, non si è ancora in grado di formare un governo. Il primo ministro uscente, al-Maliki, e lo stretto vincitore delle elezioni, Allawi, non riescono a mettersi d’accordo o a trovare dei partner per formare un ministero di coalizione. Le divisioni settarie e la totale mancanza di cultura democratica, per cui chi governa pretende tutto il potere perché non si fida dell’opposizione, sono troppo forti.
I rischi maggiori, nel lungo termine, vengono dalle fratture geopolitiche interne e dalle influenze esterne. I curdi sono di fatto indipendenti e non vogliono spartire il potere e le ricchezze energetiche con il centro. Puntano inoltre su Kirkuk, la Gerusalemme curda, come capitale del Kurdistan: un tentativo di "pulizia etnica" che le minoranze arabe e turcomanne vogliono respingere armi in pugno. Infine, l’Iraq senza Stato è diventato il terreno di scontro fra le influenze dei vicini più ingombranti, a cominciare dagli arcirivali Iran e Arabia Saudita. Teheran considera la Mesopotamia suo naturale spazio di espansione. Per questo può far leva su parte degli sciiti iracheni e sul vuoto di potere a Baghdad. La liquidazione di Saddam, seguita dal ritiro degli americani, è il migliore degli scenari possibili per Ahmadi-Nejad e associati.
La necessità di contenere le spinte iraniane e di proteggere gli interessi geopolitici ed economici americani ha convinto Obama a programmare una presenza meno visibile ma rilevante nel paese anche dopo il 2011. Migliaia di mercenari o guardie private resteranno in Iraq sotto la supervisione del Dipartimento di Stato per difendere le strutture diplomatiche americane, per addestrare le Forze armate e la polizia irachena, come "consiglieri" del governo iracheno o semplicemente come spie.
La speranza di Obama è che gli americani dimentichino presto l’Iraq, per passare alla storia come colui che ha posto fine a un tragico errore strategico. Probabilmente, invece, si è solo chiuso un atto di una tragedia destinata a durare molto a lungo. Anche per l’America e per i suoi alleati.