Stefano Livadiotti, L’espresso 9/9/2010, 9 settembre 2010
CRACK IN ITALY
Tutta colpa dei cinesi. È quello che pensano i 1.200 operai della Legler di Ponte San Pietro, nel bergamasco. L’azienda, messa in piedi alla fine dell’Ottocento da un imprenditore svizzero e poi passata sotto il controllo di una famiglia milanese, era uno dei fiori all’occhiello del made in Italy. Ancora negli anni Novanta il suo tessuto per i jeans se lo litigavano marchi come Levi’s, Banana Republic e Benetton. Lo stabilimento principale, e i tre aperti in Sardegna (a Macomer, Ottana e Siniscola), giravano insomma a pieno ritmo. E il fatturato era arrivato a toccare l’equivalente di 260 milioni di euro. Poi qualcosa s’è inceppato. I debiti hanno preso a salire, mentre i ricavi si sono quasi dimezzati. È dovuta intervenire la finanziaria della Regione Sardegna, che dopo un po’ ha passato la mano a una società vicina ai vecchi proprietari. A metà degli anni 2000 il colpo di grazia: la concorrenza spietata dei produttori asiatici si è portata via i clienti migliori.
Così, nel luglio del 2008 la Legler è stata messa in liquidazione e poi affidata a un commissario straordinario, che ha appena chiesto il passaggio all’azione fallimentare, dopo aver respinto ai mittenti due offerte di acquisto ritenute non congrue (una della russa Kord per l’intero gruppo e una di una società sarda per il solo stabilimento di Ottana). Gli impianti, fermi da tre anni, vengono rimessi in funzione solo all’arrivo di sporadiche commesse. A parte una quarantina tra guardiani e addetti alla manutenzione, i dipendenti sono in cassa integrazione da due anni. Il governo ha garantito che continueranno a ricevere l’assegno per altri diciotto mesi. Poi chissà. Nel riassumere la situazione gli uomini della task force del ministero dello Sviluppo Economico per le crisi aziendali scrivono lapidari: "totale dipendenti 1.200; dipendenti a rischio 1.200".
La Legler, oggi ribattezzata Texfer, è una delle tante aziende del tessile-abbigliamento-moda arrivate sull’orlo del baratro. Sul settore, infatti, la crisi ha picchiato più forte che altrove. Un’elaborazione dell’Istituto per la promozione industriale su dati Eurostat dice che la produzione, rispetto al 2000, lo scorso anno è scesa a quota 55,9 per cento nel tessile e addirittura a 50,1 negli impianti che trattano pelli e cuoio. Secondo il settimo Rapporto industria della Cisl, basato su calcoli dell’Istat, solo tra il 2008 e il 2009 la produzione è franata dell’11,2 per cento e il fatturato ha lasciato sul campo il 15,4 per cento. Il risultato finale è fotografato da una tabella del ministero del Welfare che ha riordinato i numeri: su un totale di 3.663 aziende manifatturiere ricorse alla cassa integrazione speciale nel 2010 (nel 2009 erano state meno della metà: 1.528) 783 operano nel tessile-abbigliamento, che appare dunque il settore maggiormente in difficoltà, seguito da quelli metallurgico (con una pattuglia di 525 imprese), dei macchinari (471) e del vetro (290). E ancora: nell’elenco dei settanta dossier più scottanti raccolto dai tecnici dello Sviluppo economico tredici sono raggruppati sotto la voce moda.
È il caso della Golden Lady dell’industriale mantovano Nerino Grassi, tra i leader mondiali sul mercato delle calze con marchi come Filodoro, Philippe Matignon e Goldenpoint. Sulle orme di Marchionne, dal suo quartier generale di Castiglione delle Stiviere mister collant ha deciso lo scorso marzo di chiudere lo stabilimento Omsa di Faenza e trasferire la produzione in Serbia, dove ha già aperto due fabbriche con un investimento di cento milioni. A rischiare grosso sono 320 dipendenti, quasi tutte donne, oggi in cassa integrazione.
Stessa sorte, già da prima dell’estate, per un terzo circa dei 1.500 dipendenti di It Holding, il gruppo che Tonino Perna ha fondato a Isernia negli anni Ottanta con l’idea di stampare le grandi griffe del made in Italy (Trussardi, Versace, Dolce&Gabbana) sulle linee di abbigliamento giovanili, a partire dai jeans. Dopo aver conquistato la leadership del mercato (i ricavi hanno raggiunto i 600 milioni) e essere sbarcato in Borsa, al termine di una vivace campagna acquisti nel 2009 il gruppo è finito in amministrazione straordinaria con un fardello di 800 milioni di euro di debiti. I tre commissari hanno cercato di venderlo in blocco. Senza successo. Così, hanno ripiegato sullo spezzatino. La controllata Malo (maglieria e cachemire: 300 dipendenti) è stata ceduta a un gruppo fiorentino. Per la Ferré sono in corso trattative. Per la capogruppo Ittierre tutto è fermo alla fase dell’esame delle offerte. Il tempo stringe: la cassa è garantita per un anno e prorogabile solo all’arrivo di nuovi proprietari.
Neanche i dipendenti dei gruppi più solidi si sono trovati al riparo. La Miroglio di Alba, forte di un fatturato consolidato di 930 milioni, 53 società con 11 mila dipendenti in 34 paesi e oltre duemila negozi monomarca, riesce in qualche modo a galleggiare sulla crisi: nel 2010 il calo dei ricavi è stato contenuto nel 7 per cento. Però perde comunque pezzi. Prima è stato chiuso lo stabilimento di Castellaneta. Poi, nel 2009 e sempre in Puglia, è toccato a quello di Ginosa: i 225 dipendenti sono finiti in cassa integrazione straordinaria. L’ombrello protettivo resterà aperto fino al prossimo agosto. Nel frattempo la Miroglio ha scelto un advisor incaricato di individuare possibili compratori e al ministero è stato aperto un tavolo di trattative con i sindacati. La proposta più accreditata porta la firma della tedesca BE-4-Energy, che al posto della fabbrica vorrebbe installare una centrale fotovoltaica in grado di assorbire i 225 lasciati a casa.
Un po’ diversa, ma con identico epilogo, è la storia della Mariella Burani, nata nel 1960 nella provincia di Reggio Emilia e approdata nel Duemila alla Borsa di Milano al termine di un tumultuoso percorso di crescita e diversificazione. Licenziatario di marchi come Gai Mattiolo e Calvin Klein, il gruppo ha stabilimenti in Lombardia, Veneto e Toscana e circa 1.500 dipendenti (compresi quelli dei negozi), ai quali vanno sommati altri 2.500 nell’indotto. L’azienda è finita in amministrazione straordinaria non solo a causa della congiuntura sfavorevole. È stata infatti travolta da una crisi finanziaria cui non sarebbe estranea una gestione un po’ allegra: alla fine di luglio il fondatore Walter Burani e suo figlio Giovanni sono stati arrestati con l’accusa di bancarotta fraudolenta. L’imprenditore si è ritrovato agli arresti domiciliari. I suoi dipendenti in cassa integrazione.