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 2010  settembre 02 Giovedì calendario

Come mettere a nudo vizi e manie dei grandi - Mark Twain, che oltre essere uno dei padri del romanzo americano fu anche uno stra­ordinario giornalista, odiava le interviste, pur avendone con­cesse innumerevoli durante la sua carriera

Come mettere a nudo vizi e manie dei grandi - Mark Twain, che oltre essere uno dei padri del romanzo americano fu anche uno stra­ordinario giornalista, odiava le interviste, pur avendone con­cesse innumerevoli durante la sua carriera. Le giudicava ina­deguate, fuorvianti, superficia­li. «L’intervista - ha lasciato scritto in un saggio inedito di poche paginette risalente agli anni 1889-90 e da poco ritrova­to tra le carte di un vecchio ar­chivio- non è stata un’invenzio­ne felice ed è forse il più povero dei modi per scoprire l’essenza di un uomo». Forse sì: a capire un uomo non serve. Ma a capi­­re uno scrittore, se è fatta bene, sì. Eccome. E l’esempio letterario più eclatante e luminoso, in questo senso, sono le leggendarie in­terviste della Paris Review che dal 1953, quando fu fondata a Parigi (oggi ha sede a New York), accanto a poesie e rac­conti pubblica la rubrica «The Art of Fiction», nella quale ven­gono intervistati i più grandi scrittori del mondo. Pezzi tal­mente belli e talmente impor­tanti per capire la letteratura del Novecento che i migliori so­no­stati antologizzati dall’attua­le direttore della rivista, Philip Gourevitch, in una serie di quat­tro volumi il secondo dei quali esce oggi in Italia: The Paris Review. Interviste Vol. 2 (Fandango, pagg. 486, euro 22; traduzione di Maria Sole Abate; il primo è uscito l’anno scorso). Si dice che l’intervista sia la re­gina del giornalismo. Ma an­che la puttana. Nel senso che se esce bene è l’articolo più bello che ci sia da leggere, ma se esce male è il peggiore. E determina­re una cosa o l’altra, curiosa­mente, non dipende affatto dal­­l’intervistato, ma dall’intervi­statore. Se chi fa le domande è un cane, anche l’intervista im­possibile a Jerome D. Salinger sarebbe uscita una porcata. Se invece chi le fa conosce bene il mestiere, anche una chiacchie­rata con un poetastro può di­ventare divertente. E i giornalisti della Paris Re­view il mestiere lo conoscono più che bene. Si preparano con scrupolo maniacale, leggono il più possibile, dedicano all’in­tervistato ore se non giorni di la­voro, poi scrivono, riscrivono, verificano, tagliano, asciuga­no, montano, fanno rivedere tutto all’interessato e infine pubblicano. Si chiama profes­sionalità. Così il risultato è qual­cosa di imperdibile. Leggere bighellonando da una pagina all’altra i pezzi del­l’antologia è come entrare nel corrispettivo culturale del mer­catino di Portobello Road, do­ve si trova di tutto: suggerimen­ti (la scrittrice canadese Alice Munro , in un pezzo del 1994, sconsiglia di correggere raccon­ti dopo averli pubblicati: «Ho fatto spesso delle correzioni del genere che si sono poi rivela­t­e un errore perché non mi tro­vavo più nel ritmo del raccon­to... Forse è meglio rinunciare a questo tipo di atteggiamento. Arrivi a un punto in cui dovresti solo dire, come faresti con un figlio, “Non è più mio”»),pette­golezzi ( Harold Bloom , intervi­stato nel 1991, ricorda di come fece infuriare Norman Mailer quando gli stroncò il suo Anti­che s­ere mettendosi a fare il con­tro preciso delle sodomie etero­sessuali e omosessuali conte­nute nel romanzo: «Fui piutto­sto colpito dal totale, includen­do il protagonista che riusciva a sodomizzare un leone. Ma in effetti Norman ha molta fanta­sia al riguardo »), insegnamenti ( James Baldwin , predicatore della Chiesa Pentecostale dal­l’età di 14 anni e scrittore dal­l’età di 24, nel 1984, tre anni pri­ma della morte, diede un’in­q­uietante spiegazione della dif­ferenza tra parlare e scrivere: «Quando sei sul pulpito devi da­re l’idea di sapere esattamente di cosa stai parlando. Quando scrir vi,cerchidiscoprireciòche non sai. Ricorrer re al linguag­gio della scrittura per mem significa stanare quellol chenonvorrestisas pe-ire, che non vuo scoprire.Ma c’è qualcosa che ti costringe a farlo comunque»), battute fulminanti ( William Faulkner , nel 1956, consegna alla posterità la sua personalis­si­ma formula da seguire per di­ventare un grande romanzie­re, ossia «mescolare con auda­ci­a novantanove percento di ta­lento, novantanove percento di disciplina, novantanove per­cento di duro lavoro »), e poi cu­riosità varie (leggendo si sco­prono cose divertentissime sul­le case di questi scrittori, sui lo­ro gusti in fatto di alcol o di libri, sui rapporti con le mogli o con gli amici, come Graham Gree­ne , che, intervistato nel 1953, sembra imbarazzato a spiega­re la distinzione tra le sue opere dichiaratamente cattoliche e quelle che lui definisce puro «intrattenimento» ma raccon­ta con disinvoltura di come rie­sca a scrivere solo quando è completamente sobrio, e non sembra ciò accada spesso, di come reputi passare il tempo con altri scrittori una forma di masturbazione, di come gli piaccia finire le serate nel suo club afro-americano dietro l’angolo...),e un sacco di aned­doti (come quando Isaac Bashevis Singer , nel ’68,ricor­d­a la paralisi creativa che lo col­se una volta trasferitosi da Var­savia a New York perché vede­va migliaia di cose che nella sua lingua non avevano un corri­spettivo: «La metropolitana per esempio, non esisteva in Po­lonia e non c’era un termine per definirla in yiddish», e così per cinque anni non scrisse nul­la, «perché avevo la sensazione che la mia lingua si fosse estin­ta »). Sulla passerella della Paris Revie w , davanti ai taccuini e ai registratori dei giornalisti, sfila­no in pompa magna premi No­bel e semi- sconosciuti, maestri e quasi esordienti, narratori e critici, saggisti e poeti. Fermar­si ad ascoltarli vale quanto leg­gere un buon romanzo: è insie­me divertente e formativo. Toni Morrison , che prima di vincere il Nobel per la Letteratu­ra fece l’editor per vent’anni, di­ce una cosa che sembra molto sensata sui suoi ex colleghi: «Quelli bravi fanno la vera diffe­renza. È come un prete o uno psichiatra; se trovi quello sba­gliato, allora te la cavi meglio da solo». Gabriel García Màr­qu­ez invece dà un consiglio de­finitivo a proposito dell’incipit: «Già nel primo paragrafo si ri­solvono la maggior parte dei problemi legati al romanzo». Mentre William Gaddis ,l’auto­re- culto che nel 1955 pubblicò il capolavoro Le perizie e poi più niente per vent’anni, spie­ga i motivi per i quali ha sempre preferito evitare le interviste sul suo lavoro: «Per la convin­zione che l’opera debba regger­si da sola - quando affiorano delle ambiguità sono volute e non ho alcuna intenzione di corrergli dietro con delle spie­gazioni - e per il terrore che le domande vengano da qualcu­no che non conosce l’opera: “Lavora secondo delle abitudi­ni precise ogni giorno?”, “Su quale parte del foglio scrive?”, quella robetta lì da talk-show, da cinque minuti di celebrità, che trasforma l’artista creativo in uno performativo. Ma non mi sembra essere questo il ca­so... ». No, infatti, trattandosi della Paris Review non è proprio que­sto il caso.