Michele Smargiassi, il venerdì 3/9/2010, 3 settembre 2010
ALTAN: ECCO PERCHE’MI VENGONO IN MENTE PENSIERI CHE NON CONDIVIDO
AQUILEIA (UDINE). Non è il sarcastico Cipputi. Non è l’incazzoso Italo. Non è neanche una delle sue dee-ninfe-polene sapienti. Se cercate l’alter ego di Altan fra i personaggi della sua commedia umana, se proprio volete capire con quale delle sue creature di inchiostro lui si identifichi davvero, siete fuori strada. L’Altan disegnato bisogna cercarlo nello scaffale dei bambini. Come si fa a non capirlo subito: Altan è Armando, il mite papà adottivo della Pimpa, la cagnetta a pallini rossi: come lui è taciturno, gentile e anche un po’ impacciato, come non t’aspetteresti dall’autore dei più folgoranti aforismi della satira politica (e forse della filosofia) italiana. A quanto pare tutta l’ironia feroce, tutta la spietata analisi dell’eterno melodramma italiano gli fluiscono nella penna a china, lasciandolo leggero come un foglio bianco. «Nonno mi metti su un cartoneeeee? », una deliziosa nipotina-elfo gli sgambetta attorno. Vestito di bianco sul prato verde della sua avita casona gialla, Altan vive da quasi sempre ad Aquileia, in un angolo appartato della Penisola. Concede poche interviste e fa poche apparizioni pubbliche. Per timidezza. «Davanti a un microfono mi blocco. Va meglio quando mi presento con Sergio Staino che parla anche per me. Una volta c’era pure Ellekappa, timidissima, e Sergio si fece intervistare anche al posto suo, “in quanto donna”...». Presto gli toccherà di nuovo forzare la sua natura: lo aspettano al Festival della Mente di Sarzana, per la presentazione di un suo libro molto particolare: Altan.Terapia. Gliel’ha chiesto l’editore Salani per una collana di self-help, accanto a titoli sull’ortoterapia, l’astroterapia, la gattoterapia, la libroterapia...
Pillole di Altan per guarire quali mali?
«I malesseri del vivere. Dalla nascita alla vecchiaia. L’idea è che uno cerchi nell’indice la sua indisposizione e prenda una o due vignette, secondo i casi».
Per il mal di politica del popolo di sinistra?
«Su quello lavoro da trentacinque anni».
Sia sincero, dottore: è grave?
«Sì, ma il malato sopravvive da anni, ha una buona tempra».
Veramente l’Italo, quello col basco e la cicca, mi sembra un po’ giù di morale.
«Ma lui è sempre stato così, quello che non ne può più».
Finisce che vota Lega pure lui.
«Non finché lo disegno io. Non glielo permetto».
E il Cipputi? È sopravvissuto alla marcia dei quarantamila, nell’80, ma sopravviverà all’accordo di Pomigliano?
«In effetti, stavolta sembra proprio la fine di una strada».
Infatti compare meno sulle sue vignette, da un po’. Exit Cipputi?
«No, ma cerco di convocarlo solo per le cose importanti. Quando sono in ballo i valori democratici e costituzionali».
E sta sempre lì, al tornio. Ma non c’è più, il tornio...
«È per dire che è uno di quelli che tengono su tutta la baracca, dal basso. Quelli che hanno la leva in mano».
Come decide chi entra in scena nella sua vignetta del giorno?
«Prima viene la battuta, o le due battute. Solo dopo decido chi le deve recitare».
Potrebbe fare a meno del disegno, vuol dire?
«L’editore Il Mulino ha pubblicato un libro di sole mie frasi, senza disegni. Ma per me disegnare resta un vizio».
Per esempio, che battute dà alla donna svestita?
«A lei le riflessioni sui valori dei maschi, o le cose dure ma non urlate.
I pensieri più cinici invece sono per la coppia nel letto, o per gli anziani sulla panchina».
E il testo come viene fuori?
«È quasi un processo fisico. Più reazione che ragionamento. Qui contano
molto gli anni che passai a Rio de Janeiro. Sono battutisti formidabili, i carioca, si vendono la mamma per un gioco di parole».
Dunque?
«Di solito rimugino per qualche ora sulle parole che leggo o ascolto in televisione. Quasi sempre è una frase ripetuta fino alla noia che mi fa scattare la battuta. Oggi per esempio sto lavorando su “governo tecnico”».
Ricetta freudiana del motto di spirito: il massimo del senso nel minimo di parole, uguale risparmio di energia, sollievo, risata.
«Infatti quando mi traducono in francese, su Le Monde, a volte non funziona. La battuta si sgonfia come un soufflé. Sono più verbosi, i francesi».
Lei però ha cominciato coi racconti lunghi.
«In realtà, già da ragazzo facevo vignette con un personaggio solo come oggi. Poi, nel corso dei tre anni che ho vissuto in Brasile, cominciai con le strisce, quelle di Trino...».
Il Creatore che lavora sotto padrone. L’hanno definito «l’unico Dio simpatico».
«Poi, sì, sono venute le storie lunghe: Colombo, Franz, Ada... Ora le chiamano graphic novel».
Le rimpiange?
«Un po’. Ma ci voleva molta energia, bisognava starci sopra per settimane senza interruzione e senza pensare ad altro».
E le vignette invece sono facili?
«Niente affatto, invidio Ellekappa che riesce a stare sull’onda ogni giorno. Sono un mezzo d’espressione splendido».
Maestri?
«Jules Feiffer. Fu il primo a disegnare storie con la sola faccia e le parole, per intere pagine. Anche il suo segno mi ha insegnato molto».
Pensavo Georges Wolinski, il francese terribile: per via della cattiveria.
«Invece da lui ho preso soprattutto i segni “sporchi”».
Infatti i suoi uomini di potere fanno un po’ ribrezzo. Ma sono sempre dei «tipi». Lei fa poche caricature.
«Non miro alla persona, ai suoi difetti... Da Arnaldo Forlani ad esempio
non avrei saputo tirar fuori nulla, disegno un individuo preciso solo se è speciale, irriducibile a un genere, se è una singolarità assoluta. E ce ne sono pochissimi nella storia italiana. Andreotti, Craxi, un paio di volte ho fatto Bossi...».
E il Cav. Banana. Quello sì.
«Per forza. Berlusconi mi ricorda lo stadio di Bologna, città dove ho vissuto da ragazzo. La tribuna aveva i piloni, non c’era niente da fare, volevi guardare la partita ma c’era sempre di mezzo il pilone. Berlusconi è
così: è sempre in mezzo, devi farci i conti. Devi disegnarlo».
Banana floscia, tacchi alti, rughe... Mai avuto grane?
«Mai. Nessun politico si è mai fatto vivo con me. Solo Giovanni Spadolini mi chiese qualche vignetta firmata. Nessuna querela da persone. Solo una da Mediaset».
E la Pimpa? La sua cagnetta vive in un mondo armonioso, senza conflitti... Deve cambiare penna per disegnarla?
«Sì, uso un pennarello più grosso».
Dicevo metaforicamente.
«Anch’io. La Pimpa vive in un mondo di linee tonde e dolci. Diciamo che è il mondo come dovrebbe essere, mentre nelle mie vignette satiriche c’è il mondo com’è».
Niente comunicazione, tra uno e l’altro?
«Meglio di no... La Pimpa nacque per mia figlia Kika, per lei ho disegnato
la felicità, e la felicità non può essere turbata. Poi forse... Armando è un adulto, ogni tanto saluta la Pimpa e esce dalla storia perché va a lavorare. E là, dove non lo vediamo, forse la pensa come Cipputi o s’arrabbia come Italo».
Si sente più moralista o più consolatore?
«Un po’ di morale ci vuole. E con quello che succede, almeno consoliamoci».
Essere figlio di un grande antropologo l’ha aiutata?
«Mio padre aveva una visione poco ideologica della politica, era attento ai fenomeni sotterranei, alla quotidianità. Dev’essere stato lui a ispirarmi una vignetta che ha avuto successo, la diceva una delle mie donne svestite: “L’Italia è un Paese eccezionale. Vorrei tanto fosse un Paese normale”».
D’Alema ne ha fatto uno slogan politico e il titolo di un suo libro. Nessuno sa più che quella frase è sua, Altan.
«Mi succede di risentire in bocca alla gente mie vecchie battute, e non me ne dispiace».
Una a cui è più affezionato?
«Quella che le riassume un po’ tutte: “Mi vengono in mente pensieri che non condivido”».
Lei è un disegnatore pin-up. Le sue vignette sono appese dietro migliaia di scrivanie.
«Credo sia un uso terapeutico, appunto. Un piccolo rito liberatorio, una piccola rivincita».
Ma lei fa soffrire i suoi pazienti di sinistra. Le sue medicine sono amare. L’ombrello ad esempio...
«Ha più di vent’anni. Nacque per caso, nell’87. Nilde Iotti aveva ricevuto l’incarico di formare un governo impossibile, e mi venne la vignetta con l’ombrello: “Cos’è?” “Solo un mandato esplorativo”. Ebbe successo, capii subito che era un simbolo, che dovevo continuare a disegnarlo».
Sì, ma è un simbolo un po’ masochista.
«Spero sempre nella capacità di reazione».