Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 02/09/2010, 2 settembre 2010
TRASPARENZA STILE USA PER I MANAGER
Con le esternazioni di Sergio Marchionne, rilanciate dai ministri del Welfare e dell’Istruzione, il patto tra capitale e lavoro viene proposto come una svolta, ma l’idea non è proprio una novità. Scriveva Leone XIII nella Rerum novarum, maggio 1891, contro la lotta di classe teorizzata da Marx nel Manifesto 1848: «Né il capitale può stare senza il lavoro né il lavoro senza il capitale. La concordia fa la bellezza e l’ordine delle cose, mentre un perpetuo conflitto non può dare che confusione e barbarie». La realizzazione più compiuta dell’enciclica si è avuta in Germania con il regime della codecisione tra rappresentanti degli azionisti e quelli dei dipendenti, introdotto sessant’anni fa dai democristiani e perfezionato dai socialdemocratici nel nome dell’economia sociale di mercato.
In Italia, la codecisione non ha mai trovato veri sostenitori. Tutt’al più si dice che gli aumenti salariali legati alla produttività piuttosto che forme di compartecipazione ai risultati ne costituiscono la premessa. Ma la mera introduzione di una parte variabile nel salario non ha mai aperto le porte dei consigli di amministrazione a nessuno. Da noi si è preferito depotenziare la contrattazione attraverso la concertazione nazionale tra le parti sociali, e poi depotenziare la concertazione favorendo i contratti aziendali, senza decidere se si debba invertire o accentuare la tendenza a ridurre la quota di valore aggiunto destinata ai salari.
Cancellare il conflitto degli interessi nell’impresa, come ha ricordato Cesare Romiti, è impossibile, ma lo si può gestire meglio. La concordia non si raggiunge una volta per tutte: la si costruisce e ricostruisce nel tempo, meglio se su un piede di pari dignità tra capitale e lavoro, e non di subordinazione del secondo al primo come pretende la teoria dello shareholder value. La disuguaglianza è conseguenza legittima delle libertà personali che comprendono la proprietà privata e il diritto di associazione. Ma come altri fenomeni va governata. E per deliberare occorre conoscere.
Accade, invece, che tanti riformatori non avvertano l’esigenza di conoscere come evolve la disuguaglianza dentro le imprese per fondare su basi specifiche e controllabili la ripartizione del valore aggiunto e dei guadagni di produttività. Il fatto che in Italia gli anni bui 2008 e 2009 abbiano bruciato per intero l’aumento di produttività del 14%, conseguito tra il 2003 e il 2007, non cambia nella sostanza la suddivisione del valore aggiunto che, negli ultimi 20-25 anni, ha favorito il capitale e penalizzato il lavoro. Basta leggere i Dati cumulativi di 2.025 società italiane, elaborati ogni anno da Mediobanca, curiosamente dimenticati nel dibattito corrente.
Per cominciare, si deve dunque decidere se e a chi convenga o non convenga correggere questa tendenza. Ma se poi si vuol contrattare azienda per azienda, bisogna saperne di più. Nel febbraio 2009, trattando della meritocrazia cara ai ministri Sacconi e Gelmini (che in altra legislatura aveva presentato addirittura un disegno di legge sul merito), avevamo suggerito che i consigli di amministrazione rendessero noto il rapporto tra la paga del capo azienda e quella della fascia mediana dei dipendenti. Del resto, la crisi ha rivelato come molti top manager, custodi della meritocrazia aziendale, non meritassero le somme che si erano assegnati, novella casta irresponsabile, nel chiuso dei consigli. Ebbene, nel gennaio 2010, il Dodd-Frank Act, la riforma del settore finanziario voluta dal presidente Obama, impone alle società di dare regolari notizie anche sul rapporto tra paga massima e paga mediana esclusa quella del boss (la paga che prende l’individuo che, su 100 colleghi, ne ha 49 che prendono più e 49 di meno). L’articolo 593 ha avuto ampia eco sulla stampa finanziaria laddove pone in relazione i compensi manageriali ai corsi azionari, ma non — et pour cause! — laddove tocca il punto sindacale.
Secondo Equilar Analysis, la paga totale mediana di un capo delle prime 500 aziende quotate a Wall Street è pari a 187 volte quella media dei dipendenti del settore privato e 19 volte quella di Obama. Il Financial Times, che cita questo rapporto e non altri ancor più impressionanti di prima della recessione, riferisce come la Borsa tema un sovraccarico di burocrazia. Ma, si sa, gli uffici del personale hanno già tutto sul sistema informatico. E allora chissà se la Securities Exchange Commission, incaricata delle istruzioni applicative, dirà anche di spacchettare le paghe mediane paese per paese per ragionare di multinazionali con maggior cognizione di causa. Chrysler, comunque, eseguirà il dettato obamiano. Sarebbe bello se Marchionne desse l’esempio in Confindustria estendendolo alla Fiat.
Massimo Mucchetti