Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 02/09/2010, 2 settembre 2010
LA VOCAZIONE DA FRATE DI STEVANIN QUANDO I DEMONI SI FANNO ANGELI
Non c’è da stupirsi. Gianfranco Stevanin, il mostro di Terrazzo, il serial killer che fece a pezzi sei prostitute e le seppellì nel giardino di casa, è solo l’erede di una gloriosa tradizione. L’ultimo criminale convertito di una lunghissima serie nata secoli fa. È la svolta della vita, l’abbandono della vecchia strada per la nuova, un mutamento radicale che implica una vera scissione della personalità. Lo racconta bene lo storico Adriano Prosperi in un saggio del 2007. Per il Cristianesimo, la conversione è il miracolo della perfezione raggiunto da ladri, assassini, eretici, ribelli grazie a un doloroso conflitto interiore. Un capovolgimento dello spirito destinato a dividere a lungo il re — che condannava comunque (a morte) il corpo del criminale — e Dio che invece lo perdonava e ne salvava l’anima. Finché i due poteri, quello secolare e quello ecclesiastico, riuscirono a saldarsi facendo del condannato a morte (pentito e convertito con tanto di sacramenti) l’immagine esemplare di morte cristiana: colui che accetta il verdetto della giustizia terrena e insieme decide di lasciare il mondo devotamente. Al punto che il poeta Gioacchino Belli osservò con un certo sarcasmo che se morivi affogato avevi pochissime chances di finire in Paradiso, ma se venivi impiccato per un misfatto la salvezza eterna era assicurata.
Ora dunque, per la Chiesa, l’ex mostro ergastolano Gianfranco Stevanin, dopo 16 anni di carcere, si avvia a essere «perfetto». Da recluso, a Sulmona, ha salvato due volte un compagno dal suicidio dopo aver rischiato la vita per le aggressioni subite in cella e adesso, come ha rivelato il quotidiano «Libero», ha intrapreso un percorso spirituale per entrare nel terzo ordine di San Francesco che sta valutando l’autenticità della vocazione. È proprio san Francesco, forse con Paolo di Tarso (futuro San Paolo), il convertito più famoso della storia, preceduto da Sant’Agostino e seguito da una folla di personaggi illustri, da Manzoni a Tolstoj. Ma qui non si tratta di un semplice (si fa per dire) passaggio dall’ateismo alla fede.
Qui la faccenda è ancora più sconvolgente. E non c’è bisogno di tornare al Medioevo per trovare ravvedimenti analoghi. Come quello di Alessandro Serenelli, prima molestatore e poi assassino della dodicenne Maria Goretti, attirata in casa sua con la scusa di rammendare dei vestiti, colpita più volte con un punteruolo e morta il giorno dopo, 6 luglio 1902, nell’ospedale di Nettuno. Uscito di prigione nel ’29 grazie a un indulto, Serenelli lavorò come giardiniere e portinaio in un convento di padri Cappuccini, nelle Marche, e morì quasi novantenne lasciando un testamento in cui ringraziava la sua vittima divenuta Protettrice e la «carità serafica» dei francescani che lo accolsero. Del resto, la «remissione dei peccati» fu una delle prerogative di Gesù, e un paio di giorni fa la Curia di Catanzaro, esprimendo il suo «profondo sgomento» di fronte ai numerosi delitti perpetrati nel suo territorio, ricordava a futura memoria delinquenti che Pietro, a differenza di Giuda, avendo avuto fiducia nella misericordia divina, fu perdonato. Dunque, «vi è una salvezza: la conversione, per ricevere il perdono da Dio e dagli uomini e non finire disperati» (il che ha suscitato anche qualche polemica).
Concetto che doveva essere condiviso anche dal vescovo di Caserta, Raffaele Nogaro, quando, nel 2006, certificò la «chiara e profonda conversione» di Raffaele Cutolo, detto «Vangelo» non certo per la sua fede ma per la capacità di imporre ai suoi il proprio potere assoluto anche dal carcere. Eppure, il superboss della camorra, pluriomicida, otto ergastoli sul groppone, pur dicendosi redento al cospetto di Dio, precisò di non essere affatto pentito davanti agli uomini e di sentirsi perfettamente coerente con se stesso. Identico iter spirituale seguito dai due mafiosi che freddarono, tra gli altri, don Pino Puglisi. Forse fu il sorriso che il prete rivolse loro prima di essere ucciso a precipitarli nel rimorso, fatto sta che sia Salvatore Grignoli sia Gaspare Spatuzza, detto «’u tignusu», oltre a dichiararsi pentiti per la legge, da allora non riescono più a distrarsi dalla lettura della Bibbia, e anzi Spatuzza ha voluto guardare dentro se stesso fino a iscriversi alla facoltà di Teologia. Ma non è detto che si tratti di una svolta a 360 gradi: «Il 90 per cento dei mafiosi — ha rivelato Grignoli — dice di credere in Dio. Uno dei miei coimputati diceva sempre: in nome di Dio, prima che ci muovessimo per andare ad ammazzare qualcuno».
Non solo in Cosa nostra, ma anche tra gli ex terroristi si trovano diversi (qualcuno dice troppi) redenti del giorno dopo, folgorati sulla via di Damasco: vedi l’ex terrorista di prima Linea Roberto Maria Severini, ovvero Roberto il Pazzo, e Maurice Bignami, il capo militare dello stesso gruppo, che ultimamente ha raccontato a Rimini come quando e perché, grazie all’incontro con una suora, ha capito che «la vera rivoluzione è Cristo». Per non dire delle frotte di satanisti sanguinari diventati Angeli del Signore. Nel 1978 David Berkowitz fu condannato dalla corte di New York a sei ergastoli per omicidi plurimi, ma l’anno dopo l’esorcista Malachi Martin compì il miracolo facendogli confessare le sue colpe e liberandolo dal possesso del Diavolo, al punto che dopo la seduta David si dichiarò un «cristiano rinato». Un po’ come Andrea Volpe, la Bestia del Varesotto, tre volte omicida, nel quale un pastore evangelico, Leonardo De Chirico, due anni fa disse di «aver riscontrato un interesse crescente per la parola di Dio».
Paolo Di Stefano