Massimo Gaggi, Corriere della Sera 02/09/2010, 2 settembre 2010
LA RINCORSA ALLA CLASSE MEDIA USA (CHE NON C’È PIÙ)
Barack Obama dichiara chiusa la guerra in Iraq costata mille miliardi di dollari e si concentra sull’emergenza economica promettendo alla classe media Usa di ridarle fiato con sgravi fiscali e riattivando la creazione di posti di lavoro. Così facendo, il presidente insegue il fantasma di un ceto medio che non c’è più: una classe indebolita da trent’anni di polarizzazione dei meccanismi di distribuzione del reddito. E polverizzata dalla crisi finanziaria del 2008 che ha demolito lo strumento — il ricorso al indebitamento — col quale aveva cercato di compensare la perdita di potere d’acquisto delle sue retribuzioni.
A un’America impoverita e inquieta — la rabbia dei conservatori bianchi, ancora relativamente benestanti, che sfogano frustrazioni e paure per il declino degli Stati Uniti nell’aggressività del movimento dei Tea Party, mentre a sinistra cresce l’inquietudine dei radicali che accusano il presidente di aver abbandonato a sé stesse le fasce sociali più deboli — Obama promette sgravi fiscali che, in realtà, potranno configurarsi, al massimo, come una conferma dell’attuale regime di tassazione.
Ce n’è abbastanza per accusare il presidente già da tempo in difficoltà, di vendere fumo e, infatti, i conservatori non si stanno facendo sfuggire la succulenta occasione. Ma, da un punto di vista politico, Obama non può fare molto di diverso per cercare di gestire una situazione difficilissima creata da altri (soprattutto dagli stessi repubblicani) e della quale lui non porta responsabilità, se non quella di aver promesso durante la campagna del 2008 un futuro di crescita, benessere e centralità dell’ America nel mondo, quando era già evidente che il Paese era in declino e incamminato vers o a nni molt o difficili. Prima, già a partire dal 2007, il crollo del mercato della casa che ha mandato in tilt il «bancomat» (nuovi prestiti garantiti col maggior valore teorico del patrimonio immobiliare) usato senza sosta dai ceti medi per mantenere entrate e standard di consumo ai livelli elevati del passato, pur in presenza di redditi calanti. Poi, nell’autunno 2008, il collasso finanziario che ha prodotto un congelamento del credito e della fiducia degli operatori economici, distruggendo in pochi mesi oltre 8 milioni di posti di lavoro.
Ma lo smembramento di quell’«America di mezzo» che per quasi tutto il Ventesimo secolo è stato il simbolo di prosperità di un intero popolo e un grande fattore di stabilità politica, era iniziato molto prima: con le politiche di Ronald Reagan e la sua fiscalità regressiva, accusano i democratici. Probabilmente, però, il meccanismo di una distribuzione sempre più diseguale dei redditi si era messo in moto già prima dell’elezione, nel 1980, del presidente repubblicano. Sulle cause del fenomeno gli esperti sono tuttora divisi: effetto della globalizzazione, della concorrenza della manodopera dei Paesi emergenti, ma anche di politiche fiscali che, premiando chi produce più reddito e spingendo per continui aumenti di produttività del sistema economico, hanno favorito fenomeni di polarizzazione della ricchezza. I redditi, che nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale erano cresciuti in modo abbastanza equilibrato nei diversi ceti sociali Usa, alimentando il «sogno americano», negli ultimi trent’anni hanno registrato andamenti sempre più squilibrati: dividendo la società americana in cinque blocchi del 20% ciascuno calcolati in base al reddito («quintile» è il termine usato dagli statistici per indicare questi aggregati sociali) vediamo che, dal 1979 al 2005, mentre i guadagni del quinto più ricco della popolazione americana sono cresciuti del 70 per cento (al netto dell’inflazione e una volta pagate le tasse), quelli dei gruppi seguenti hanno registrato incrementi assai inferiori: 29% il secondo «quintile», 21% il terzo, 17% il quarto, appena 6% l’ultimo. Il reddito dell’1% della popolazione più abbiente, per contro, nello stesso arco di tempo è cresciuto addirittura del 176 per cento.
Distorsioni nella distribuzione della ricchezza in parte inevitabili in tempi di globalizzazione galoppante, ma certamente esasperate dalle politiche fiscali degli ultimi decenni e in particolare da quella regressiva di George Bush che a partire dal 2003 (dopo un primo assaggio nel 2001) ha stimolato l’economia con una generosa dose di abbattimento delle imposte che, oltre a favorire ulteriormente i più abbienti, ha scavato una voragine nei conti pubblici: lo «sconto» sulle tasse, sostanzialmente privo di copertura finanziaria, venne giustificato come una misura temporanea, destinata a scadere, appunto, il 31 dicembre 2010.
Obama oggi si rivolge a un ceto medio che non c’è più perché è proprio l’America ormai sclassificata che scivola sempre più verso la proletarizzazione e la disoccupazione di massa (quasi 10% di senza lavoro, ma, calcolando anche i sottoccupati, si arriva a un’area di disagio sociale almeno doppia) che si aggrappa disperatamente al mito della «middle class»: ancora qualche tempo fa nove cittadini su dieci dichiaravano di farne parte, anche quando confessavano poi al sondaggista di essere ormai ridotti in miseria.
Il presidente parla, poi, di sgravi fiscali perché proprio la battaglia delle tasse — il destino del «pacchetto Bush» — sarà il fattore chiave nella campagna elettorale per le elezioni di «mid term» del 2 novembre. Da un punto di vista economico non c’è dubbio che gli «sconti» andrebbero lasciati scadere, riportando il gettito a un livello più elevato. In caso contrario il Tesoro federale, già fortemente esposto, andrebbe incontro a un vero dissesto. Anche le voci economiche repubblicane più autorevoli — da Alan Greenspan a Martin Feldstein — condividono questa analisi, visto che i tagli di spesa necessari per compensare gli sgravi di Bush non sono mai stati varati dal Congresso. Semmai si discute — come fa Feldstein in compagnia di molti economisti democratici — dell’opportunità di rinviare di un anno o due il ripristino delle vecchie aliquote fiscali, per non togliere potere d’acquisto agli americani proprio mentre il Paese rischia di ricadere nella recessione.
Ma in Parlamento i repubblicani sono pronti a dare battaglia contro l’intenzione di Obama di aumentare le tasse almeno ai contribuenti più ricchi. Il presidente rischia di non ottenere nemmeno questo dal Congresso, stretto com’è tra i conservatori che vogliono meno Stato e meno tasse per tutti e una sinistra democratica convinta che il Paese non è uscito dalla crisi perché Obama è stato troppo timido nel suo programma di stimoli pubblici all’economia: bisogna fare molto di più per creare posti di lavoro con piani di infrastrutture e nel pubblico impiego, ma per questo servono più risorse federali e, quindi, un maggior gettito fiscale.
Sarà questa la battaglia d’autunno tra i due fronti politici: consumerà tutte le energie di un presidente che non potrà nemmeno tentare di impostare il ben più ambizioso discorso della possibile ricostruzione di un ceto medio. Obama dovrebbe mettere sul tavolo robuste politiche di redistribuzione del reddito — un tema che è tabù per la maggioranza degli americani — e provare ad avventurarsi in un rilancio del settore manifatturiero e dell’ export anche attraverso un riesame dei rapporti coi concorrenti asiatici. A spingerlo in questa direzione ci sono, ormai, anche vecchi protagonisti del capitalismo Usa come l’ex capo dell’Intel, Andy Grove, che lo invita a minacciare, se necessario, anche ritorsioni protezioniste. Un programma che sarebbe controverso e, comunque, troppo ambizioso per un presidente il cui capitale politico negli ultimi mesi si è paurosamente ridotto.
Massimo Gaggi