Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  settembre 02 Giovedì calendario

BLAIR SI CONFESSA: «HO PIANTO PER L’IRAQ»

Non c’è giorno che non pensi all’Iraq e all’Afghanistan, ma non ha rimorsi. Giudica «un disastro» l’era Brown, George W. Bush «un idealista», Silvio Berlusconi «uno che non fa promesse però agisce». Ammette un errore, il bando alla caccia alla volpe. Nell’autobiografia uscita ieri in sei Paesi (in Italia da Rizzoli) l’ex premier britannico Tony Blair ricostruisce i dieci anni a Downing Street, ascesa e declino del New Labour, riflettendo sul lato oscuro del potere dal punto di vista «non dello storico ma del leader», consapevole di muoversi sul piano d’intersezione tra grande storia e personale redenzione. Un libro «assolutorio» per i critici che ironizzano sul titolo «da manuale evangelico di autoaiuto», «Un viaggio». Bilancio, umano e politico, di un’esperienza sulla quale «forse col passare del tempo qualcuno farà una valutazione più completa».
Il viaggio comincia il 2 maggio 1997, «entrai a Downing Street in veste di primo ministro... era la mia prima e unica carica governativa». La notte precedente, mentre nell’euforia generale gli exit poll delineavano il terremoto politico che poneva fine a diciotto anni di governo conservatore e decretavano il «plebiscito» che investiva il più giovane premier dal 1812, il 44enne Blair aveva conosciuto l’altro volto della leadership, la paura. Con la vittoria finiva il tempo delle promesse e si apriva quello della responsabilità, delle decisioni che avrebbero impresso al Paese la traiettoria indicata dai giovani, inesperti e visionari teorici del nuovo laburismo post-ideologico, svincolato dalla retorica dello scontro di classe, aperto al centro e all’economia di mercato. Quello che, nell’analisi di Blair, Gordon Brown avrebbe abbandonato assumendo nel 2007 la carica di premier. Netto il giudizio sull’uomo che con lui rivoluzionò il partito, lo affiancò come cancelliere dello scacchiere («il migliore possibile»), gli subentrò in un’amara staffetta tra accuse di complotto e tradimento: «Gordon è un tipo strano: forte, capace e brillante... ma anche difficile, a tratti esasperante. Calcolo politico, sì. Sentimento politico, no. Intelligenza analitica, assolutamente. Intelligenza emotiva, zero. Era chiaro che sarebbe stato un disastro».
Tre anni di lavoro, nessun aiuto da autori professionisti, un anticipo di oltre quattro milioni di sterline devoluto ai reduci dell’Iraq: le memorie corrono in ottocento pagine e capitoli dai titoli suggestivi, dal dickensiano Grandi speranze al beckettiano Finale di partita, regalano note intime come quelle dedicate alla madre scomparsa troppo presto — «dopo, la fretta prese il sopravvento, l’ambizione si inasprì, e realizzai che la vita era breve» — e al padre, cresciuto in una famiglia operaia di Glasgow, militante comunista passato a destra dopo la guerra: il suo percorso convinse Tony della necessità di smantellare i vecchi luoghi comuni sull’alternativa destra-sinistra. C’è il ricordo di Lady Diana, il fascino della principessa del popolo che stringeva tra le mani l’essenza di un’epoca e la difficile gestione politica della tragedia; il rapporto con Elisabetta II, l’orgoglio per l’accordo del Venerdì santo che portò alla condivisione del potere e alla pace in Nord Irlanda, l’omaggio alla moglie Cherie, «mia roccia»; il grazie a Berlusconi per l’appoggio nell’assegnazione delle Olimpiadi 2012. L’ammissione di essersi «aggrappato» alla bottiglia: whisky, vino e gin tonic, «sono arrivato al limite». Tre capitoli centrali ripercorrono la controversa decisione di schierarsi con Bush nella guerra irachena appena dichiarata conclusa da Barack Obama. «Pensano che non rimpianga con ogni fibra del mio essere quelle morti? L’angoscia non si esaurisce nelle lacrime, che pure sono state tante». Niente armi di distruzione di massa nell’Iraq di Saddam, «inimmaginabile l’incubo che seguì, ma lasciarlo al potere sarebbe stato un rischio maggior e » . Non esclude, l’ex premier perseguitato dalle vittime innocenti di Medio Oriente e Balcani, che in futuro si debba ancora ricorrere alla forza contro il terrore («inaccettabile» che l’Iran si doti di armi nucleari, ha detto ieri in un’intervista alla Bbc). Nel giorno del lancio era a Washington, inviato del Quartetto, per la ripresa dei negoziati diretti israelo-palestinesi. L’impegno ora è per la pace, il dialogo tra religioni, il sostegno alle politiche ambientali, l’Africa: «Cosa mi rende ottimista? La gente. La cosa più importante che ho imparato è questa: le persone sono la speranza».
Maria Serena Natale