Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  settembre 02 Giovedì calendario

VIAGGIO NELLA MENTE DEL CLIENTE

Cosa passa per la testa dei clienti? In soccorso delle ricerche di mercato e dei sondaggi che tentano di rispondere a questa domanda, c’è il neuromarketing, una delle ultime frontiere degli studi sui comportamenti dei consumatori. Indagare le reazioni inconsapevoli degli individui, come il movimento degli occhi o l’attività cerebrale, di fronte a un prodotto o a una comunicazione, può aiutare le aziende a carpire le idee associate a un brand, a comprendere dove si focalizza l’attenzione in un negozio, o cosa provoca emozioni durante una pubblicità.
Gli esperti e le aziende già guardano a questo approccio con interesse e cominciano a occuparsene pure gli istituti di ricerca.
Anche se, come sottolinea, in un recente studio, Graham Page, executive vice president neuroscience practice di Millward Brown (società di ricerca e di consulenza di marketing), «i marchi dovrebbero usare le ricerche basate sulla neuroscienza congiuntamente con tecniche riconosciute, quando queste possono aggiungere valore. Combinata con ricerche qualitative e basate sui sondaggi, la neuroscienza può aggiungere una potente nuova dimensione della comprensione dei comportamenti».
Una delle tecniche più utilizzate è l’eye-tracking, che consente di tracciare i movimenti dello sguardo. Per esempio, questo approccio è stato usato da Skoda per valutare la visibilità del brand in uno spot di Skoda Fabia. «I movimenti dell’occhio indicano il focus dell’attenzione visiva più accuratamente delle risposte riferite. Questo metodo non rivela perché una particolare area attira l’attenzione, o come rispondono le persone a ciò che guardano, ma fornisce informazioni su ciò che è più probabile che le persone guardino», si legge nello studio.
Più complesso è il discorso sulla misurazione dell’attività cerebrale, un approccio «che fornisce una registrazione delle reazioni dei soggetti a una pubblicità momento per momento. Questa può essere un’informazione veramente utile, perché molte di queste reazioni sono così veloci e fugaci che i soggetti possono non ricordarsele», secondo il report di Millward Brown, che ha sfruttato questa tecnica in una ricerca sul video Evolution di Dove, dove si mostra il processo di preparazione di una modella per un servizio fotografico e i successivi ritocchi digitali, mostrando le traiettorie cognitive e emozionali che il soggetto attraversava vedendo il film.

Per rivelare le idee suscitate a livello profondo dai brand e dalle pubblicità, si può usare invece la misurazione dell’associazione implicita, che si basa sul fatto che il cervello immagazzina le informazioni in reticoli in cui i concetti sono collegati tra loro da legami più o meno forti; misurando la maggior o minore velocità con cui un individuo produce una risposta a un compito di associazione, è possibile capire le associazioni attivate dai brand, dalle pubblicità, dal nome o dal logo di un marchio.

«Uno degli ambiti in cui oggi si vede un maggiore utilizzo del neuromarketing è l’advertising, per valutare l’efficacia della pubblicità, studiando dove si focalizza l’attenzione e il coinvolgimento emotivo del consumatore», dice Francesco Gallucci, presidente di 1to1lab, società italiana di ricerche specializzata in neuromarketing che ha realizzato una ricerca online su un campione di esperti di marketing in Italia. Se il 73,4% dei rispondenti ha indicato la pubblicità come ambito in cui il neuromarketing può risultare efficace, al secondo posto, per il 61,6%, c’è l’in-store marketing. «In questo caso è utile per capire come l’ambiente e i prodotti producono engagement, o per valutare il fattore dell’ansia, un elemento che pregiudica la shopping experience. Bisogna tener presente, infatti, che la componente razionale rappresenta circa 5% del processo decisionale di acquisto, la componente inconscia il 95%».

Il neuromarketing è ritenuto utile anche per il packaging (57,6%), nello sviluppo di nuovi prodotti (46,8%) e per le attività sul web (44,8%), anche se per ora solo il 21% del campione ha dichiarato di aver utilizzato ricerche usando il neuromarketing. «In Italia siamo ancora in una fase pionieristica, ma è un fenomeno che sta crescendo, anche perché c’è un forte interesse da parte dei grandi istituti di ricerca internazionali», conclude il presidente di 1to1lab.