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 2010  settembre 02 Giovedì calendario

La madonna pentita della ’ndrangheta - La donna è un’attempata popolana, con baffetti che non osa rasare per la maggiore vergogna a mostrarsi senza, capelli intrecciati a corona sulla nuca, faccia segnata dalle rughe

La madonna pentita della ’ndrangheta - La donna è un’attempata popolana, con baffetti che non osa rasare per la maggiore vergogna a mostrarsi senza, capelli intrecciati a corona sulla nuca, faccia segnata dalle rughe. La grazia - già spuntata o su cui forzare la Vergine - dev’essere di quelle complicate, se la poveretta s’è calata in ginocchio all’ingresso della chiesa e messa a strusciare la lingua sul pavimento, direzione la statua sull’altare. Si batte il petto e prega nel leccare, mentre una comare caritatevole le spazzola davanti. Traccia una scia simile a quella di un limbaccio. Mi sussurrano un nome - lo taccio per motivi di salute - e che sta esaudendo un voto: ringrazia la Vergine dell’innocenza ottenuta dal figlio in un processo per omicidio di cui anche le galline lo sanno colpevole. Una penitente percorre sulle ginocchia le pietre del selciato, snodando la corona del Rosario, entra in chiesa, arriva davanti alla statua, piange lacrime silenti. Chiede vita per il bimbo malato. Le ginocchia sono un grumo sanguinolente. Altre hanno i piedi piagati, per aver fatto scalze l’intero percorso fin dal paese. Un giovane arriva sotto una campana di spine; il torso e la schiena, nudi, sono puntellati di sangue. Scene antiche, già scolpite nei miei ricordi di mezzo secolo fa e che non avrei creduto di poter rivedere il primo di settembre del terzo millennio, vigilia del clou dei festeggiamenti iniziati il 24 agosto con la novena. Nel piazzale davanti, uomini si passano un otre di terracotta, di quelli a ugello. Contiene vino. Prima di bere, schizzano via le poche gocce che creanza pretende, lo rivoltano dal manico sul dorso della mano e si fanno calare uno spruzzo a ombrello, come gli zappatori per levarsi di bocca l’acre sapore della terra. Poco più in là, la tarantella è di quelle serie, dove non si può sgarrare. Il mastro da ballo è il più alto in grado, tra i presenti, nell’onorata società. Invita il compagno di danza dal folto cerchio di soli uomini che delimitano lo spazio. Passi e mosse al ritmo di tamburelli, organetto e cerameje (una specie di cornamusa): simulano il duello al coltello. È ‘ndrangheta, di quella antica. Giocano alla ‘ndrangheta - ma non è detto non ci scappi il sangue. Quanti contano davvero se le sono scrollate certe esibizioni, coniano moneta, loro, in qualsiasi modo, sempre illecito. Un giovane fende il cerchio. Gagliardo, occhi per nessuno, induriti, labbra a broncio. Si solleva un brusio. Il mastro da ballo gli cede il posto con un inchino. L’altro ne assume il ruolo. Non più di dieci minuti e s’allontana in direzione dei monti. Un sussurro giunge anche alle mie orecchie: «di razza nobile». E il nome, ben noto. Che taccio, di nuovo per non dovermi ammalare. Altre tarantelle, sparse qua e là, sono invece senza rigidità: anche donne vi saltellano i passi, si ride e si scherza, non c’è gerarchia, né regola sociale. Così fino a tarda sera. E nella notte. Si dorme poche ore nelle casette, sulla paglia. Il riposo serve, al risveglio sarà il gran giorno. Siamo a Polsi, nel cuore dell’Aspromonte, territorio di San Luca, patria di Corrado Alvaro. La Vergine è la Madonna della Montagna, ingiustamente nota come la Madonna della ’ndrangheta. Convergono a migliaia qui, da tutti i paesi della provincia, devoti, curiosi, e ’ndranghetisti. Polsi è, per un calabrese, come La Mecca per un musulmano. È quella valle in fondo, incassata ai piedi di una corona di monti, sul versante ionico del reggino. Una volta ci si arrivava a piedi o a dorso di mulo, d’asino. Mi assale malinconico un altro tempo, immagini ingiallite. Un sentiero, allora. Una striscia serpeggiante di nuda terra tra il disordine delle erbe. Puntava, contorto e ripido, i faggi della dorsale. Sulla destra, un dirupo da cui scansare lo sguardo, una caduta interminabile fino all’alveo della fiumara. Sulla sinistra, alberi, ombre più scure dentro il buio della notte. All’inizio gli ulivi, alti e ingombranti, poi i panciuti castagni ingioiellati dai ricci ancora chiusi, quindi bassi pini marittimi, la faggeta infine, con tronchi di una pallida luminescenza. Appena alla cresta, un taglio netto: non più il verde lussureggiante, ma una terra brulla, arsa e rinsecchita, con radi arbusti, frane, pietre in precario equilibrio sui costoni. La pista scendeva zigzagando, tornante dopo tornante, fino a una fiumara, poco più d’uno spruzzo d’acqua. Oltre, Polsi. Altri tempi. Quel sentiero è ora una strada carrabile, tagliata a mezza costa. Lo strapiombo è sempre lì, come è lì la fiumara. Anche gli alberi sono gli stessi, ingrigiti da cinquanta cerchi in più, gli stessi cerchi che ho aggiunto io ai miei anni. Trascinano un bue dentro la chiesa. A forza, perché resiste, sembra avere remore a entrarci sacrilego. Scopro che i buoi ne hanno diritto. Perché tutto cominciò da un bue: a metà dell’XI secolo, un pastorello di nome Italiano, di Santa Cristina d’Aspromonte, trovò il bue smarrito intento a scavare in terra con gli zoccoli, finché emerse una Croce greca, e lo vide inginocchiarsi. Al pastorello apparve la Madonna e gli chiese un santuario in quel luogo, dove già esistevano un rifugio costruito nel III secolo da cristiani che scappavano dalle persecuzioni degli imperatori romani e un insediamento, databile IX-X secolo, dei monaci basiliani provenienti dai paesi conquistati dagli arabi. La leggenda racconta che i monaci usassero mettere un confratello in posti dove poter soccorrere i viandanti, per non perdersi; uno di questi, di nome Toppa, morì assiderato in una notte di gelo, mentre cercava legna con cui ravvivare il fuoco. Apposta tradizione vuole che il pellegrino, nel suo primo viaggio, depositi un ramo davanti alla Croce di Toppa. Nessuno oggi sa dove essa sia. Fino a qualche tempo fa, per ogni strada che conduceva a Polsi, c’era un posto chiamato «Croce di Toppa». Il santuario splendette fino al 1481, anno in cui i monaci basiliani lo abbandonarono, per ritirarsi a Grottaferrata. I secoli successivi furono di decadenza. Risorse - e ricominciò la frequentazione in massa dei fedeli - solo dopo la prima metà del XVII secolo, quando il santuario passò sotto la giurisdizione del Vescovo di Gerace. Con il tempo, Polsi, pur restando luogo di devozione e di culto, è diventato punto di raccolta della ’ndrangheta, un porto franco dove, fino agli anni ’60, era tollerato che si portassero armi e che si celebrasse l’uscita della statua della Madonna a colpi di fucile esplosi per aria - talvolta addosso a qualcuno che, allo snodarsi della processione, restava macchia a intristire lo spiazzo - e dove le acque della fiumara si tingevano del sangue delle capre scannate per santificare la festa con una scialata di carne. La ’ndrangheta lì assumeva decisioni, dirimeva controversie, sentenziava morte, creava alleanze. E «battezzava» i nuovi adepti, sotto l’albero della scienza, il grosso castagno nel cui incavo comare Rosina depositava le armi dei ’ndranghetisti - che avevano l’obbligo di presentarsi disarmati alla riunione - annotando l’appartenenza come si fa oggi per i cappotti in un locale pubblico. La Madonna non pare contenta di questo - e neppure dei tanti gesti di paganesimo e d’idolatria. Non vorrebbe ’ndranghetisti su cui stendere il manto di misericordia. Lo rivelano i suoi occhi incerti e spauriti: ne ha viste troppe. Avesse saputo che finiva così, se la sarebbe risparmiata l’apparizione. Se rimane, è per la marea di fedeli che accorrono sinceri di fede. A Polsi si vive una sensazione d’immutabilità, con il tempo che scorre più lento che altrove. Qui, ’ndrangheta vecchia e nuova camminano a braccetto, ed è la vecchia a sorreggere la nuova. Solo quando alla nuova mancherà quel sostegno, apparirà qual è: cruda e assassina. E sarà la sua fine. * Scrittore calabrese, autore del romanzo «Il giudice meschino» (Einaudi)