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 2010  settembre 02 Giovedì calendario

“Diana era come me. Una manipolatrice” - Forse perché l’ha scritta da solo, senza l’aiuto dei soliti scribi, l’autobiografia di Tony Blair sembra assai schietta per essere un libro di memorie, tanto più di memorie di un politico

“Diana era come me. Una manipolatrice” - Forse perché l’ha scritta da solo, senza l’aiuto dei soliti scribi, l’autobiografia di Tony Blair sembra assai schietta per essere un libro di memorie, tanto più di memorie di un politico. La sera del 30 agosto 1997, nella sua abitazione privata di Sedgefield, il primo ministro mise a letto i pargoli, cenò con la moglie Cherie e alle undici andò a letto. Ma «verso le due di notte accadde qualcosa di singolare: aprii gli occhi trovando un poliziotto accanto al letto». Era appena arrivata la notizia «che la principessa Diana era rimasta gravemente ferita (il solito eufemismo in attesa della ferale e fatale conferma, ndr) in un incidente stradale». Quanto a riflessi, la reazione di Blair fu degna di un grande politico. Choc, cordoglio e dolore sì (forse), ma dopo. Prima di tutto, «si trattava di un evento nazionale di grande importanza, anzi di un evento mondiale. Bisognava gestire l’immagine della Gran Bretagna». Poi un pensiero irriverente per l’altra donna di casa Windsor: «Se fosse morta la regina, gestire la sua dipartita sarebbe stato più semplice, in un certo senso». Appunto perché animale politico, Blair aveva capito che Diana poteva piacere o meno ma era un patrimonio d’immagine, quindi, nel nostro evo mediatico, un patrimonio (e un rischio) politico: «Era un’icona, forse la più famosa e fotografata al mondo. Aveva catturato l’essenza di un’era e la teneva fra le mani». Benché non fosse schierata, «incarnava alla perfezione gli ideali del New Labour». E ancora: «Eravamo entrambi, a nostro modo, manipolatori». Anche se, ed ecco il rischio, «questo fu gravemente destabilizzante per la monarchia, intesa come istituzione o come azienda». Il problema-Diana era tutto qui. E dire che, con lei, Blair non aveva debuttato bene: appena vinte le elezioni, la principessa chiese di essere invitata ai Chequers, la residenza di campagna del premier. Blair prima disse di sì, poi si ricordò che non era ancora stato presentato all’ex marito ma tuttora erede al trono Carlo e rimandò. Quando la visita finalmente si fece, un mese dopo, viene descritta così, con un capolavoro di understatement: «La conversazione, in alcuni momenti, assunse sfumature sgradevoli», specie quando Blair fece notare alla signora che la sua relazione con Dodi poteva essere un problema. E dire che il giovane William, mentre il primo ministro faceva la predica a mamma, si era prestato a giocare a pallone con i giovani Blair. Ma, una volta morta, oltretutto giovane e tragicamente, Diana diventò intoccabile come una martire laica. Da qui il celebre discorso con cui Blair la santificò e l’ancor più celebre definizione di «principessa del popolo». Ammette oggi Blair: «L’espressione ora mi sembra un residuo di un altro secolo, troppo sdolcinata e forse un po’ eccessiva». Ma funzionò. Restava l’altro problema: deviare l’ira popolare dalla regina. Per lei, lady D non era più niente se non la mamma dei suoi nipoti e come tale andava trattata. Però il mondo intero lacrimava sulla principessa triste e Blair capì che il gelido silenzio della corona «poteva essere molto pericoloso per la famiglia reale». Per convincere Elisabetta a far finta di essere addolorata, il premier mobilitò Carlo. Con i toni, peraltro, di chi sa bene che i Windsor regnano ma non governano e che il potere vero sta al numero 10 di Downing street: «La regina doveva intervenire». Doveva, non poteva. Cosa che poi Elisabetta fece, da grande professionista della regalità, parlando alla Nazione: «Era chiaro dal tono e dal linguaggio che, quando decideva di agire, lo faceva con estrema bravura». Ulteriore lezione: il cinismo, in politica, si chiama bravura. Così, per il giovane e vispo primo ministro il seguito fu tutto in discesa. Benché poi, a telefunerali celebrati, si rivelasse una dura prova il week-end successivo, quando Blair fu ospite dei reali nel tetro castello scozzese di Balmoral prediletto dalla regina Vittoria, fra bagni antidiluviani in fondo ai corridoi, valletti onnipresenti («in realtà, ragazzi molto simpatici, ma sempre valletti»), il rito del tè («servito dalla regina con l’apposito colino»), il ricco breakfast («sembrava uscito da Walter Scott») e perfino il micidiale barbecue del principe Filippo, dove «i reali cucinano e servono gli invitati, lavano i piatti e rigovernano». Insomma, «un mix intrigante, surreale e assolutamente stravagante», com’è poi l’Inghilterra che amiamo. Però Diana fu convenientemente seppellita, la monarchia salvata e anzi rafforzata, la crisi risolta. O quasi. La scena si svolge sempre a Balmoral: «Stavo per sedermi in una poltrona dall’aspetto comodo e invitante, quando il grido strozzato di un valletto e l’orrore sul volto della regina mi bloccarono. Mi fu spiegato che quella era la poltrona di Vittoria, e dalla sua morte nessuno l’aveva più usata». Altro che Diana...