Artuto Zampaglione, la Repubblica 1/9/2010, 1 settembre 2010
MA ADESSO ABBIAMO PIÙ PAURA"
Dalla mezzanotte non spareranno più. Daranno consigli, addestreranno soldati e poliziotti, si dedicheranno all´intelligence, predicheranno la democrazia. Si tratta degli americani naturalmente. È l´ossessione che tiene il paese in un´angosciosa suspense. La guerra di Bush, durata sette anni, adesso scade, più che finire, appunto a mezzanotte.
E comincia una nuova edizione, quella di Obama, a partire dall´alba del 1° settembre. Essa equivale, è chiaro, a un parziale disimpegno, a una ritirata graduale. Tra un anno se ne andranno tutti. Anche le sei brigate, cinquantamila uomini, che restano ufficialmente come tutori, non come combattenti. Nel frattempo l´Iraq deve imparare a camminare da solo. È la fine di un´occupazione o la conclusione di una liberazione? La bella redattrice di Al Mada (L´Orizzonte), quotidiano liberal, ma non troppo, esita. Poi sbotta: «Entrambe». Ma si ricrede: «Erano tutte due le cose e non sono finite, né l´una né l´altra». Non dice che è meglio cosi, ma si vede che lo pensa. Molti iracheni hanno paura di restare da soli in balia di se stessi. Nella drammatica situazione creata dagli invasori-liberatori.
Nel caffè di Adhamya la paura è palpabile. Adhamya è un quartiere sunnita. Nel caffè non si beve, né acqua né caffè, e non si mangia, neppure un dattero. Si rispetta il digiuno del Ramadan. Ma si discute. Per la verità sottovoce. Brandelli di frasi, ai quali non è sempre facile dare un senso. È prudente non soffermarsi troppo, suggeriscono. Quindi i dialoghi si concludono in fretta. Anche se non accade nulla di eccezionale e l´atmosfera non è ostile. Se mai carica di una curiosità non priva di sospetto. Cosa fa qui questo straniero non americano? Un tempo incombeva la minaccia dei rapimenti. Adesso i sequestri sono sempre frequenti, ma sono l´attività di piccoli ricattatori. Le organizzazioni clandestine hanno perso il vizio di rubare i giornalisti. E magari ucciderli. È un progresso di cui un cronista approfitta.
I controlli all´ingresso del quartiere rallentano il traffico, creando interminabili colonne di automobili. Adhamya è stato o è un covo di ribelli sunniti, e soldati e poliziotti sciiti sono meticolosi nelle perquisizioni. Gli elicotteri sono più numerosi del solito. I posti di blocco si sono intensificati nelle ultime ore. Non più cinquecento metri uno dall´altro, ma soltanto duecentocinquanta. E accanto ai poliziotti ci sono sempre i soldati. Sulle due sponde del Tigri, chiamate una Al Karkh e l´altra Al Risafa, sarebbero state dispiegate brigate supplementari. C´è insomma una gran paura che Al Qaeda e le milizie ribelli sciite celebrino la fine della guerra di Bush e inaugurino la "Nuova Alba" di Obama con attentati spettacolari.
Le voci si moltiplicano: centinaia di autobombe e quaranta kamikaze si sarebbero infiltrati nella città. Ma chi ha studiato la tattica dei terroristi sostiene che essi agiscono quando meno lo si aspetta. E questo, con tutta la mobilitazione in atto, non è il momento più favorevole per i clandestini. Quindi chi se ne intende non crede a quelle voci, diffuse per alimentare il panico o dettate dall´angoscia. Per un comune mortale è impossibile distinguere il vero dal falso. Quindi resta il crampo del dubbio.
Nel caffè di Adhamya prevale l´incertezza. I pochi clienti anziani seduti davanti ai tavoli spogli sono sunniti che hanno detestato, e forse combattuto, gli americani, colpevoli di avere portato al potere gli sciiti, ma adesso vorrebbero che gli americani non se ne andassero tanto in fretta. Non è chiaro quel che significa cinquantamila "soldati non combattenti". Vuol dire infermieri?, azzarda un vecchio barbuto, col tradizionale copricapo sunnita. I sunniti di Adhamya temono di essere d´ora in poi più esposti allo strapotere degli sciiti. Da nemici gli americani erano diventati protettori. Quando spiego che un consigliere di Barack Obama ha detto che contro il terrorismo bisogna usare meno il martello e più il bisturi, cioè meno l´esercito e più l´intelligence e la diplomazia, mi guardano stupiti. Il bisturi in Iraq?
Secondo Nuri el-Maliki, il primo ministro, che è appena comparso con solennità alla televisione, dal 1° settembre l´Iraq è una nazione «sovrana e indipendente», e i rapporti con gli Stati Uniti saranno d´ora in poi quelli normali tra due nazioni sovrane e indipendenti. Lo Stato veglierà sulla sicurezza ed è in grado di farlo. Non ci sarà un conflitto tra comunità. Lui impedirà, insomma, che il paese slitti in una guerra civile.
La dichiarazione di Nuri al-Maliki non è accompagnata da manifestazioni di giubilo. Di solito un paese festeggia la ritrovata sovranità. Ma a Bagdad non sventolano in queste ore le bandiere. Né suonano le fanfare. Oggi ci saranno delle cerimonie ufficiali. Il generale Odierno, comandante americano in partenza, passerà le consegne. Il vice presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, è già sul posto. Ma è da escludere una partecipazione popolare. Lo stesso discorso di Nuri al-Maliki, annunciante la recuperata indipendenza, non ha certo suscitato entusiasmo.
Al-Maliki non aveva del tutto torto quando ha denunciato coloro che negano in blocco i progressi compiuti negli ultimi anni. Nonostante la corruzione e la paralizzante infiltrazione nelle sue istituzioni e nei suoi organismi di interessi settari, lo Stato si è malapena ricostituito. Nell´esercito e nella polizia sono presenti esponenti di milizie illegali, che hanno scarso rispetto per la Costituzione. E il generale Babakir Labari dice che le sue Forze armate non saranno in grado di garantire la sicurezza prima del 2020. Non poco tuttavia è stato fatto.
I funzionari e i militari sono meglio retribuiti di un tempo. I prodotti di consumo invadono negozi e mercati, e arrivano liberamente dall´estero. Su trenta milioni di abitanti ci sono venti milioni di cellulari e altrettanti televisori. Esistono inoltre numerose stazioni televisive e non pochi quotidiani indipendenti. Ma non dai partiti che li finanziano. Entro questi limiti la libertà d´opinione (e di parola) è una conquista. Resta però che il trenta per cento di disoccupati è senza indennità. E che il quaranta per cento della popolazione vive sotto la soglia di povertà, in un paese ricco di gas e di petrolio, la cui produzione non è aumentata rispetto a quella di sette anni fa. La scarsità di energia elettrica ha moltiplicato i generatori privati, che consumano una quantità di carburante, in un paese in cui durante la lunga estate si raggiungono i cinquanta gradi. Inoltre quasi due milioni di iracheni, per lo più borghesi e professionisti, sono fuggiti all´estero e non osano rientrare in patria. Non si fidano.
Nelle sue ultime dichiarazioni il generale Ray Odierno ha spiegato che la minaccia principale è la mancanza di un governo stabile. Sei mesi dopo le elezioni legislative non si è ancora formata una coalizione che abbia i due terzi di seggi in Parlamento, come vuole la Costituzione. Gli americani sperano che lo sciita Nuri al-Maliki, esponente del vecchio partito Dawa (l´Appello), rimasto provvisoriamente alla testa dell´esecutivo, raggiunga un compromesso con l´avversario Ayad Allawi, uno sciita laico con un forte seguito sunnita. Ma c´è il rischio di nuove elezioni. Che si svolgerebbero sotto la forte pressione dell´Iran. Finora gli americani non sono riusciti a districare il groviglio crisi politica-terrorismo, e ad arginare l´influenza dei loro peggiori nemici, gli ayatollah di Teheran. È anche questo un segno del loro fallimento.