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 2010  settembre 01 Mercoledì calendario

ADDIO FIGNON

L’occhiale d’ordinanza a celare solo parzialmente uno sguardo sempre presente, lucidissimo. La voce resa roca dalla malattia scoperta nell’estate del 2009 e che negli ultimi tempi lo aveva colpito alle corde vocali senza minargli la forza del pensiero. L’avevamo visto così, ospite dell’ultimo Giro d’Italia, e così lo ricorderanno tutti ora che non c’è più. Perché Laurent Fignon se n’è andato poco dopo aver tagliato il traguardo dei suoi primi cinquant’anni. È stato un cancro alle vie digestive, questo è certo. Probabile che, almeno come concausa, lo abbia minato l’assunzione di anfetamine e cortisone durante i suoi anni belli, come aveva pubblicamente ammesso in occasione del lancio della sua autobiografia, “Eravamo giovani e spensierati”. E lui lo è stato, sempre, rimanendo sino all’ultimo personaggio unico in un mondo del ciclismo, ma più in generale dello sport, ormai troppo votato al conformismo.
UNA VITA SU DUE RUOTE
Parigino doc, sin dopo l’adolescenza aveva praticato sport a buoni livelli senza mai veder scoccare la scintilla della passione. Poi a 16 anni l’amore per la bici. Ha cominciato a correre con gli occhiali, suscitando all’inizio più curiosità che rispetto. È durata poco, perché a 23 anni metteva già in riga tutti al Tour, a cominciare da Bernard Hinault, semplicemente un simbolo per quella Francia che viveva ancora la sua grandeur ciclistica.
Così divenne “il Professore” e tale è rimasto. Per quell’aria di superiorità che ne faceva un unicum, per quell’intelligenza, sulla strada e anche fuori, rarissima da ritrovare anche nelle stagioni successive. Fece doppietta subito al Tour, gli mancò il bis con il Giro d’Italia in quel 1984 soltanto perché il disegno della corsa era troppo favorevole a Moser e alle sue lenticolari. Poi però si è rifatto con gli interessi, anche da noi, anche davanti a quel pubblico sin troppo tifoso che lo insultava temendolo e che ha imparato ad amarlo soltanto a posteriori.
«ERA UNICO»
Due Milano-Sanremo, a cavallo di fine anni Ottanta, prima di portarsi a casa anche il Giro. L’anno sembrava buono per doppiare al Tour, rimase in giallo 11 giorni prima della beffa servita nella crono finale che da Versailles portava ai Campi Elisi davanti alla sua gente e che incoronò Lemond per soli 8” facendo passare entrambi alla storia. L’americano, saputo della scomparsa, lo ha ricordato commosso: «Era unico,
molto riservato, ma decisamente dalla testa superiore e mi piaceva l’onestà che aveva verso tutti, a cominciare da se stesso. È stato uno dei migliori ciclisti negli ultimi 40 anni e quel giorno a Parigi sul podio mi sono sentito male per lui».
UNA FINE A TESTA ALTA
Era durato ancora quattro anni, ma senza più squilli. Nel suo ultimo Tour, 1993, sulla salita della Bonnette, come confessato nell’autobiografia, si sfilò da tutto il gruppo per apprezzare «un momento di tristezza e grazia che nessuno poteva rubarmi».
Poi una seconda carriera come organizzatore (la Parigi-Nizza ceduta nel 2002 all’Aso che già organizzava il Tour) e il ruolo di commentatore in tv e radio, sino all’ultimo, come un mese fa alla Grande Boucle. Ha affrontato la malattia a testa alta, sapendo di avere poche speranze e molta voglia di lottare, diventando un simbolo anche più di quello che è stato Armstrong nonostante il finale diverso. Nella storia della sua vita ha scritto: «Non sarò mai soddisfatto, avrei voluto essere campione del mondo, vincere più Tour e classiche. Ma ho vissuto degli anni fantastici”».
Merci, monsieur Laurent, grazie per quello che ci hai regalato.