Mario Biagioli, La Stampa 1/9/2010, pagina 25, 1 settembre 2010
La grande bugia di Galileo - Quando si parla di telescopio, lo strumento che ha consentito all’uomo di vedere corpi celesti lontani, il pensiero (e il merito) vanno a Galileo Galilei
La grande bugia di Galileo - Quando si parla di telescopio, lo strumento che ha consentito all’uomo di vedere corpi celesti lontani, il pensiero (e il merito) vanno a Galileo Galilei. Del resto, lo stesso scienziato ha sempre sostenuto, (dal «Sidereus nuncius» del 1610 in poi), di aver inventato il telescopio in modo del tutto autonomo senza aver mai visto strumenti simili né aver mai ricevuto informazioni dettagliate sulla struttura e sulla schema ottico di strumenti analoghi messi a punto da altri, anche se, questo sì, ne aveva sentito parlare. Tutto ciò di cui ammette di essere venuto a conoscenza era che, nell’autunno del 1608, un’occhialaio olandese aveva inventato un dispositivo dai mirabili effetti che rappresentava oggetti distanti come se fossero vicini. E anni dopo, nel 1623, nel «Saggiatore» affermò che la notizia dell’invenzione olandese non gli semplificò il lavoro, anzi, glielo rese ancora più difficile. E infatti scrive: «Il ritrovar la risoluzion d’un problema segnato e nominato, è opera di maggiore ingegno assai che il ritrovarne uno non pensato né nominato, perché in questo può aver grandissima parte il caso». L’olandese, un semplice maestro d’occhiali ordinari, giunse con ogni probabilità casualmente alla sua invenzione: «Maneggiando vetri di più sorti, si abbatté a guardare nell’istesso tempo per due, l’uno convesso e l’altro concavo, posti in diverse lontananze dall’occhio, ed in questo modo vide ed osservò l’effetto che ne seguiva, e ritrovò lo strumento», scrive ancora Galileo. Lui ci arrivò, invece, seguendo un altro percorso, con competenze ben diverse dal semplice occhialaio. In un certo senso, lo «reinventò» con la forza dell’ingegno più che del caso. La fortuna non basta ad «escogitare i mezzi per giungere all’invenzione di un simile strumento, che poco dopo conseguii, basandomi sulla dottrina delle rifrazioni», scrive nel «Nuncius Sidereus». Ora, salvo poche eccezioni, gli storici della scienza hanno accettato la versione di massima dei fatti offerta da Galileo, nonostante ci fosse l’evidenza che telescopi erano già in circolazione da Milano a Napoli nell’estate del 1609, quando lo scienziato era al lavoro per mettere a punto il suo. Per esempio, è documentata la presenza di uno di questi telescopi a Padova ai primi di agosto del 1609. «Uno degli occhiali in canna di che ella mi scrisse già, è comparso qui in mano d’un oltramontano», scrive Lorenzo Pignoria ad Antonio Gualdo il 1° agosto di quell’anno, in una lettera che compare nelle opere complete di Galilei che Antonio Favaro cominciò a pubblicare a fine Ottocento. Ma si pensò che quello strumento, di cui si fa riferimento nella lettera, fosse successivo a quello che Galileo aveva costruito oppure che lui non l’avesse mai visto. Ma una «nuova» lettera di Paolo Sarpi - teologo della Serenissima e stretto amico dello scienziato - induce a una riconsiderazione radicale della versione dei fatti fornita da Galileo, peraltro sempre avvallata dagli studiosi, e rimette in discussione l’originalità e indipendenza della sua invenzione. Il 21 luglio 1609 Sarpi scrisse a un corrispondente parigino, un ugonotto di origine italiana, Francesco Castrino, queste poche righe: «In Italia non abbiamo cosa nuova: solo è comparso quell’occhiale che fa vedere le cose lontane; il quale io ammiro molto per la bellezza dell’invenzione e per la dignità dell’arte, ma per uso della guerra né in terra né in mare, io non lo stimo niente». Insieme ad altre prove sui movimenti di Galileo a Venezia, in quel preciso periodo, questa lettera smentisce quanto aveva sempre affermato lo scienziato. Egli non ammise mai di sapere che proprio in quei giorni uno straniero stesse offrendo un telescopio alla Serenissima - telescopio che fu provato e valutato da Sarpi stesso per conto del Senato veneziano. Molto probabilmente era questo il telescopio cui si riferiva Sarpi nella lettera del 21 luglio. Da ciò si può dedurre che nel momento in cui lo scienziato si mise di grande lena al lavoro per costruire il suo telescopio, certamente ne sapeva molto, più di quanto ci teneva ad ammettere, sui telescopi di altri. Sostenne di aver solo saputo che il telescopio esistesse, ma sembra estremamente probabile che, attraverso Sarpi, Galileo avesse avuto accesso a una dettagliata descrizione di come fosse costruito lo strumento e quali fossero le perfomances del telescopio portato a Venezia da un artigiano o mercante del Nord Europa. È anche possibile che Sarpi glielo avesse mostrato. Di certo quest’ultimo rese un parere negativo sullo strumento dello «straniero» al Senato, che ne rifiutò l’offerta. Poco dopo invece lo stesso Senato accolse il telescopio di Galileo che rimunerò con il raddoppio dello stipendio all’università di Padova. Il comportamento di Galileo e Sarpi non è per niente anomalo, se giudicato rispetto alle convenzioni professionali e sociali del periodo o rispetto alla segretezza che studi recenti su Galileo hanno identificato come uno dei suoi tratti più caratteristici, ma è certamente sorprendente per chi ha visto o voluto vedere in lui lo scienziato «puro». E forse ancora più sorprendente non è tanto il contenuto della lettera di Sarpi quanto il fatto che questa sia rimasta stranamente invisibile agli storici della scienza. Non solo fu esclusa dall’edizione nazionale delle opere di Galileo curata da Antonio Favaro, ma non è stata neppure notata dalle generazioni successive di studiosi. E questo nonostante fosse stata pubblicata più volte: nel 1833, 1847, 1863, e 1931. L’ultima edizione - del 1931 - è di Laterza e quindi facilmente reperibile, mentre quella del 1833 è disponibile su Google Books. In tempi recenti, di questa lettera si fa accenno, a quanto mi risulta, solo in un libro del 1996 di Libero Sosio, «Fra Paolo Sarpi e cosmologia» (Ricciardi editore), che tuttavia non sembra rilevare l’importanza della medesima nella cronologia dell’invenzione del telescopio. Colpisce il fatto che Favaro avesse deciso di non inserire la lettera di Sarpi nelle «Opere» di Galileo, nonostante la conoscesse e l’avesse citata due volte all’inizio della sua carriera, e quindi prima di imbarcarsi nel progetto della grande opera sullo scienziato. La decisione di escluderla dalla sua edizione della corrispondenza galileiana è davvero singolare. In un articolo del 1906, «La invenzione del telescopio secondo gli ultimi studi», Favaro sembra addirittura dimenticarne l’esistenza: «Non abbiamo documenti i quali provino che lo strumento abbia fatta la sua comparsa in Padova avanti la fine del luglio». Non è possibile determinare, a questo punto, quali possano essere state le motivazioni dell’omissione, ma non è difficile immaginare che l’orgoglio nazionale esplicito della monumentale opera filologica di Favaro, e il mito di Galileo, rintracciabile in tanta storiografia successiva, non abbiano creato le condizioni favorevoli per la «scoperta» di quella lettera. Ma forse è finalmente arrivato il momento di operare una reinterpretazione del personaggio Galilei come un abile opportunista, una sorta di ibrido fra un eroe e un businessman della scienza - non solo un matematico abilissimo e un coraggioso sostenitore della cosmologia copernicana, ma anche un operatore dotato di grande senso tattico che sapeva cogliere le occasioni importanti quando capitavano e trasformarle velocemente in successi strepitosi come appunto la sua «invenzione» del telescopio.