GABRIELE BECCARIA, La Stampa 1/9/2010, pagina 24, 1 settembre 2010
“Gli scienziati? Sempre più robot” - Il compito è impossibile prima ancora di cominciare: chi mai riuscirebbe ad analizzare 368 mila articoli e 8 milioni di abstracts - vale a dire le sintesi - nel database medico PubMed per produrre una ricerca su alcune malformazioni cerebrali che accomunano cavie ed esseri umani? La scienza classica, quella a cui appiccichiamo i visi amichevoli di Darwin ed Einstein, si deve arrendere, schiacciata dalla bulimia dei dati
“Gli scienziati? Sempre più robot” - Il compito è impossibile prima ancora di cominciare: chi mai riuscirebbe ad analizzare 368 mila articoli e 8 milioni di abstracts - vale a dire le sintesi - nel database medico PubMed per produrre una ricerca su alcune malformazioni cerebrali che accomunano cavie ed esseri umani? La scienza classica, quella a cui appiccichiamo i visi amichevoli di Darwin ed Einstein, si deve arrendere, schiacciata dalla bulimia dei dati. A meno che non la sostituisca la «science machine» - la scienza automatizzata - che facce e cervelli dei ricercatori li relega in secondo piano, facendo fare il grosso del lavoro ai computer, istruiti da software capaci di corteggiare l’intelligenza artificiale: allora la ricerca sulle «Brain malformations» diventa realtà, a cui il coordinatore, il biologo-matematico Andrey Rzhetsky della University of Chicago, dedica una frase enfatica: «Nessun curatore umano, e nemmeno un intero gruppo, avrebbe potuto realizzarla». Il professore disegna i programmi con cui analizzare milioni di studi alla volta e tirarne fuori conoscenze inedite, altrimenti inaccessibili, come in una spremuta cognitiva: lui è l’autore, insieme con James Evans, di un pezzo su «Science» in cui spiega la portata di questa rivoluzione. Se gli scienziati annegano in un sapere prodotto con efficienza quasi suicida e se le loro esplorazioni - dalla genomica alla cosmologia - richiedono logiche ipercomplesse, «prevediamo che entro un decennio una serie di strumenti enormemente più potenti di quelli attuali consentirà un sistema tutto nuovo di generazione delle ipotesi e dei test in settori-chiave come biomedicina, chimica e fisica». Anche se gli scettici non gradiranno, l’idea di creatività è sottoposta a una fortissima pressione e cambia: ibridandosi con la potenza analitica dei calcolatori e delle reti, la scintilla intuitiva dei ricercatori perde molto del suo enfatico significato. «La quantità di sapere che un individuo gestisce è cambiata poco nei millenni e la materia endocranica non può certo superare i propri limiti. Il singolo deve rassegnarsi e una metamorfosi globale è inevitabile - sottolinea Giuseppe O. Longo, ingegnere e matematico, studioso di teoria dell’informazione e intelligenza artificiale -. Amplificandosi la delega alle macchine, Internet diventa il sistema nervoso del Pianeta: è questa creatura emergente a preludere a una condizione cognitiva in cui la scienza si trasforma nell’impresa di una super-mente connettiva». Professore, lei parlerà di intelligenza planetaria al «Festival della Mente» di Sarzana che si apre dopodomani: un esempio di questa mutazione? «Gli esempi sono innumerevoli. Ma basta pensare alla progettazione di un aereo di linea. Già oggi, e in futuro sempre di più, sarà demandata a una vasta comunità di individui che non possono fare a meno delle competenze depositate nelle macchine e nei loro archivi. L’essere umano si limita alla gestione manageriale, quella del coordinamento». E’ una prospettiva che molti considerano esaltante e angosciosa allo stesso tempo: lei tende all’ottimismo o al pessimismo? «Sono prospettive ugualmente realistiche: siamo avvolti in una nube di infosfera che non smette di dilatarsi e che potrebbe in un prossimo futuro generare un effetto di saturazione e poi di blocco. Mi riferisco alla vulnerabilità complessiva: non solo richiede enormi risorse, in primo luogo finanziarie, per sostenersi, ma la sua velocità di elaborazione e diffusione può propagare errori a catena, fino a una pericolosa instabilità cognitiva». Intanto le nozioni di brevetto e proprietà intellettuale vacillano. La rivista «Nature» racconta che nei convegni ogni limite è saltato: i ricercatori spiattellano in diretta, in Rete, le scoperte dei colleghi. «In effetti queste nozioni stanno evaporando: al nome proprio si sostituisce sempre più spesso l’indirizzo “www...” e il copyright tende a lasciare il posto al copyleft. Ma tanti problemi giuridici e culturali restano irrisolti, mentre la pirateria dilaga». In pratica come sta cambiando il lavoro dello scienziato? «Accelera in modo esponenziale: si fa ricerca costantemente connessi e non c’è tempo di pubblicare sulle riviste tradizionali: è così comoda la dimensione virtuale che il supporto cartaceo perde la funzione classica. D’altra parte, basta pensare ai dizionari: ce ne sono per tutte le lingue e sono a portata di clic. La conseguenza è che il processo standard - invio alla testata, controllo dei “peers”, approvazione, pubblicazione e diffusione - scompare. Chi compie lo studio tende a renderlo subito noto, saltando i passaggi intermedi. E se contiene qualche errore, anche questo si propagherà». E’ lo stesso principio degli amati-odiati social networks, o no? «In effetti i computer hanno una vocazione specifica. Oltre a fare calcoli, collegano gli esseri umani. La tecnologia dell’informazione è così duttile che stabilire dei contatti multipli non costa quasi nulla e nel diluvio universale dei messaggi muta l’impostazione narrativa non solo dei ricercatori, ma dell’umanità». Lei prevede due possibili scenari: quali? «Uno è il meticciato uomo-macchina, in cui un’intelligenza globale prende il sopravvento sui singoli. L’altro, invece, è segnato dalle sacche di resistenza di chi non vuole assimilarsi: proprio le frange più dotate potrebbero dire un sonoro “no”».