Donatella Stasio, Il Sole 24 Ore 31/8/2010, 31 agosto 2010
“TSUNAMI” O “VENTICELLO” GUERRA DI NUMERI SUL DDL
«Com’è il processo breve? ». «Mhmm... Breve!», rispose con un sorriso sornione il Procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, sommerso da taccuini e telecamere nel corridoio antistante la commissione giustizia del senato. Era dicembre dell’anno scorso, e il ddl del governo sul «processo breve», a un passo dal primo sì di palazzo Madama, aveva scatenato una guerra di numeri sui procedimenti destinati ad essere spazzati via dalle nuove regole: appena l’1% di quelli pendenti in primo grado, minimizzava il ministro della giustizia Angelino Alfano; «centinaia di migliaia», controbatteva l’Associazione nazionale magistrati; «tra il il 10 e il 40%» di quelli pendenti, soprattutto per reati gravi, come la corruzione, scrisse il Consiglio superiore della magistratura, definendo il provvedimento «un’inedita amnistia». A quei tempi, il «processo breve» era brevissimo: due anni al massimo per ciascun grado di giudizio, pena la sua morte. «Estinzione », in gergo tecnico, senza distinguere tra processi nuovi e processi in corso. Uno «tsunami », secondo il Csm; un «venticello », assicuravano governo e maggioranza. Ma nonostante le profonde divergenze sulla cosiddetta «valutazione di impatto », il governo corresse un po’ il tiro,tant’è che nel testo poi approvato dal Senato il 20 gennaio 2010 i 6 anni di durata massima sono diventati 6 e mezzo (3+2+1,5) per i reati puniti con meno di 10 anni; 7,5 (4+2+1,5) per i reati puniti da 10 anni in su; 10 (5+3+2, prorogabili fino a 1/3) per mafia, terrorismo, strage e reati gravissimi. Trattamento speciale per i processi in corso, ghigliottinati dopo solo 24 mesi, se relativi a reati puniti con meno di 10 anni commessi prima del maggio 2006, come nel caso dei processi Mills e Mediaset in cui è imputato il premier Silvio Berlusconi.
Licenziato dal Senato, il «processo breve » è finito su un binario morto, lasciando spazio al più modesto e meno «devastante » ddl sul «legittimo impedimento », che assicura al premier e ad altre cariche dello stato una sospensione dei processi in attesa dello scudo costituzionale (il cosiddetto Lodo Alfano bis). La decisione, a suo tempo, fu fortemente caldeggiata dai finiani e, indirettamente, dal Quirinale: nonostante il restyling, il ddl sul «processo breve» restava infatti una «mina vagante» per il sistema giudiziario, costretto a fare i conti con una durata astrattamente «ragionevole», ma di fatto «irragionevole» vista la mancanza di supporti finanziari, organizzativi, informatici e anche normativi, indispensabili per garantire una sentenza definitiva.
L’opzione per il «legittimo impedimento», insomma, fu dettata, se non imposta, dalla logica della «riduzione del danno ». E anche se il presidente della Repubblica non intervenne mai ufficialmente, basta rileggere i giornali dell’epoca per ricordare che le sue preoccupazioni per il rischio-tsunami derivante dal «processo breve » erano forti tanto quanto quelle per la cosiddetta norma blocca-processi, inserita nel decreto sicurezza all’inizio della legislatura e poi soppressa "in cambio" del Lodo Alfano.
Oggi il «processo breve» torna in auge, e con lui anche la guerra dei numeri: i «miglioramenti » introdotti al senato non ne hanno attutito l’effetto tsunami, secondo il presidente dell’Anm Luca Palamara, che continua a denunciare il pericolo della morìa di «centinaia di migliaia» di processi. Palamara insiste sulla necessità di «risistemare prima la baracca del processo » con interventi organizzativi, ordinamentali (la revisione della geografia giudiziaria), normativi. Non bastano i maggiori stanziamenti promessi da Alfano, soprattutto per guadagnarsi il sì, politico, di Gianfranco Fini. Che a gennaio aveva subordinato il suo via libera a «congrui stanziamenti» ma ora considera prioritario ridurre l’impatto, stimato da Italo Bocchino in 4-500mila procedimenti, a causa della norma transitoria. Peraltro, ancora più gravi sono le norme a regime che fanno decorrere la durata massima del dibattimento ( 3,4 o 5 anni, secondo i casi) dalla richiesta di rinvio a giudizio ma, poiché questa può arrivare anche molto oltre la chiusura delle indagini, i 3, 4 o 5 anni cominciano a decorrere comunque dopo tre mesi dalla chiusura delle indagini il che riduce enormemente la durata effettiva del primo grado: una norma che metterà fuori gioco, a fine 2010, il processo Mediatrade, dove Berlusconi è imputato di frode fiscale e appropriazione indebita.
Il ddl fu definito «devastante » nel parere del Csm,che l’attuale vicepresidente, Michele Vietti, ha recentemente richiamato sebbene fosse precedente al voto del senato. Dopo quel voto, Berlusconi disse di non essere contento e ribattezzò il ddl «processo lungo». Il testo fu sommerso da critiche durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario e Alfano, in polemica con l’Anm,disse che avrebbe ascoltato soltanto la voce dei capi degli uffici. Andò all’Aquila ma lì il presidente della Corte d’appello Giovanni Canzio fu implacabile: in mancanza di correzioni, osservò, il ddl provocherà «un non irrilevante stress di tenuta del sistema»; verrà «azzerato ogni serio progetto organizzatorio- acceleratorio messo in campo dagli uffici più consapevoli e responsabili»; sarà «la mortificazione» delle best practices che il governo dice di voler sviluppare e «la vittoria» delle strategie dilatorie per far morire i processi.