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 2010  agosto 29 Domenica calendario

ARCHVIO FALLACI

Il nome di Oriana Fallaci, nel mondo latino, ha suscitato passioni particolarmente feroci e radicalmente diverse. C’era chi tremava soltanto a sentirlo e chi lo amava alla follia. Uno dei motivi di questa scissione è la battaglia che la giornalista fiorentina ha condotto per rendere noto al grande pubblico l’orrendo fenomeno dei desaparecidos. In Argentina, certo, ma non solo. Quando uscì l’edizione in lingua spagnola di Un uomo (anni Ottanta), la Fallaci fu invitata a Buenos Aires per tenere una serie di lectures all’università. Le aule dove si svolgevano le sue conferenze erano gremite da migliaia di studenti, corsi per ascoltare questa donna italiana tenace e così coraggiosa da dire senza mezzi termini quel che pensava del regime argentino e del fatto che gli oppositori politici sparissero nel nulla. Fuori dall’università, stavano accampati agenti dei Servizi segreti e della polizia, che avrebbero dovuto evitare il degenerare della situazione e magari impediare a Oriana di “esagerare”. Mai lei esagerò.
L’intervista a Galtieri
Il coraggio non le mancò neppure quando, nel giugno del 1982, si trovò davanti a Leopoldo Galtieri, uno degli uomini della junta militare che organizzò il colpo di Stato contro Peron. Galtieri fu presidente dell’Argentina dal dicembre del 1981 fino appunto al giugno 1982; Oriana lo fece parlare a lungo della guerra per le Falklands. Poi gli disse chiaro e tondo che lo considerava «il rappresentante di un regime che non sa cosa fare della libertà e in più la uccide. La sua è una dittatura, signor presidente, non lo dimentichiamo», gli sputò in faccia. Galtieri rispose in qualche modo e Oriana proseguì illustrandogli il suo pensiero sulle sparizioni: «Lei non può comparare i desaparecidos con i soldati che muoiono in guerra (traduciamo dalla versione in spagnolo dell’intervista, disponibile sul web, ndr). Un desaparecido è una persona che viene arrestata o sequestrata da un gruppo paramilitare perché non la pensa come lei. (...) Poi viene condotta dalla polizia militare, torturata fino alla morte e sepolta in una qualsiasi fossa comune senza nome o forse buttata a mare o nel Rio della Plata. Il resto sono cazzate, scusi la brutalità». Detta a un militare, non è cosa da poco.
A testimonianza dell’impegno della Fallaci per le vittime della dittatura, dalle carte messe in vendita sul web nei giorni scorsi da un libraio canadese, spunta una splendida lettera, risalente più o meno allo stesso anno dell’intervista con Galtieri. Nel testo compaiono errori di battitura e ripetizioni, segno che si tratta probabilmente di una copia ancora da correggere, visto che Oriana controllava scrupolosamente ogni riga e le sue pagine erano sempre perfette.
Il documento è la risposta a una missiva che la Fallaci ricevette da Leon Ferrari, un argentino che a quanto scrive l’aveva conosciuta nel 1952. L’uomo le racconta le vicende della sua famiglia. Vive in Brasile, dice, ma un suo famigliare di nome Ariel e la sua fidanzata sono spariti in Argentina. Desaparecidos. Leon spiega di essersi rivolto all’ambasciata, di aver lottato per tre anni e di non aver ottenuto nulla. La replica della Grande Toscana è dura e bellissima. «Caro signor Ferrari, soltanto in questi giorni, rientrando a New York dove abito più spesso che altrove, ho trovato la sua lettera del 4 ottobre. Se conosce i miei libri, i miei scritti, le mie interviste, non stenterà a immaginare quanto essa mi abbia acceso di ira e di dolore», dice.
E subito si confessa impotente: «Naturalmente non v’è molto che io possa fare per lei sul piano personale. E i motivi sono semplici. Uno è che la vergogna del problema chiamato “desaparecidos” supera i casi singoli e deve essere affrontata nel suo insieme; l’altro è che la natura della mia vita, così complicata, non mi permette di seguire i casi singoli. Il mio lavoro mi conduce continuamente in diverse parti del mondo, dall’Asia all’Europa alle Americhe, capita che per mesi sia irraggiungibile perfino dalla mia famiglia, oppure mi isolo per periodi altrettanto lunghi per scrivere senza avere contatti col mondo».
Poi, la giornalista conferma di
ricevere numerose richieste di aiuto da parte dei lettori, che però non riesce quasi mai a prendere in considerazione come vorrebbe. «A ciò v’è da aggiungere che ricevo continuamente lettere tragiche come la sua: da ogni parte del mondo. (Per alcuni anni, le ricevevo dal Brasile dove, le assicuro, la situazione non era migliore di quella argentina. Si assassinava nell’identico modo. E dubito che oggi essa sia molto migliorata...). Quindi, se dovessi occuparmi di ogni caso che mi viene segnalato, passerei la mia esistenza a far quello e niente altro. Non scriverei nemmeno più».
In prima persona
A un tratto, però, arriva la sorpresa: «Tuttavia mi sono occupata di lei, ho fatto in questo caso una eccezione. Ho chiamato subito l’ambasciata italiana di Buenos Aires e ho chiesto che cosa stavano facendo per rintracciare Ariel e la sua fidanzata. Ho parlato con l’ambasciatore, che ben conosco. (E, mi creda, non è uno dei peggiori. Al contrario, è interamente dalla parte delle vittime come lei.) Mi ha risposto come temevo: in modo vago, parlando di “necessità”, di silenzio e di riservatezza. Mi sono infuriata e la conversazione è finita con una serie di urli e di insulti da parte mia. Gliene ho gridate di tutti i colori e poi ho deposto il microfono senza salutarlo». Eccola, la sfuriata tipica dell’Oriana. Facile immaginare che cosa abbia detto al diplomatico che tentava di eludere le sue richieste. «Magra consolazione. A che serve, fuorché a togliersi una soddisfazione e a sentirsi male dopo? (Sono malata di cuore, non dovrei arrabbiarmi e quella sfuriata mi ha fatto sentire male per ore). Unica speranza: poiché sono una donna temuta, può anche darsi che la mia scenata dia qualche frutto».
La Fallaci non si tira indietro: «La seconda cosa che posso fare per lei è parlare del suo caso in una intervista che sto per dare a un giornale argentino. Le dirò che non amo dare interviste, perché non amo parlare di me e incrementare l’eccessiva pubblicità che già esiste intorno a me. E, quando i giornalisti chiedono di intervistarmi, mi nego quasi sempre. Però ho accettato di farmi intervistare da questo giornale (“Gente”) proprio per dire la mia sui desaparecidos e segnalare il suo caso e anche dire quello che penso sul lavoro non fatto dalla ambasciata italiana di Buenos Aires. Sì, lo faccio proprio per lei: in omaggio al caro ricordo che ho di lei. Ho anche posto come condizione che l’intervista fosse pubblicata integralmente, senza paura. Se lo faranno veramente, dirò alla mia segretaria di mandargliene una copia. Ma, ripeto, questo è tutto. E mentirei se dicessi il contrario, se le dessi false illusioni». La conclusione è affettuosa: «Dio sa se capisco il suo dramma personale, caro Leon. Io capisco come pochi altri queste cose: sia che esse avvengano in Argentina che in Brasile che in Bolivia che in Afganistan che in Vietnam e via dicendo. Ma, ripeto, niente può essere risolto sui casi singoli: bisogna combattere il fenomeno alla radice, nel suo complesso. Isolandosi nella tragedia privata e battendosi solo per quella, non si ottiene nulla. E stando all’estero, in esilio, come lei, ancor meno. Dovete battervi, voi argentini. Battervi tutti insieme e dal di dentro, non dal di fuori. Altrimenti non riuscirete mai a recuperare il vostro Paese. Esso resterà sempre nelle mani dei fascisti e degli assassini impuniti».
Questa è solo una lettera, un gioiello sparso. Tanti altri potrebbero trovarsi fra le carte di Oriana su cui sta lavorando il nipote Edoardo Perazzi. Li aspettiamo.