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 2010  agosto 29 Domenica calendario

GIANNI BERTINI

Poco più di un mese fa, a metà luglio del 2010, è stato compiuto un crimine contro la storia della cultura e dell’arte italiana della Seconda metà del Novecento. A danno di Gianni Bertini, l’artista pisano nato nel 1922, morto ottantottenne l’8 luglio 2010 dopo aver galoppato con l’ardire e la fierezza di un kamikaze lungo Sessant’anni di storia dell’arte europea. Pittore, autore inesausto di happening e provocazioni culturali, complice e illustratore di libri d’artista fra i più belli degli ultimi trent’anni, inventore e animatore di riviste scarne ma zeppe dei sapori del tempo.
In quei giorni dello scorso mese di luglio i giornali hanno dedicato solo poche righe distratte alla sua morte. Tanto che una valorosa gallerista milanese, la Carla Roncato di “Derbylius”, lanciò in quei giorni una sorta di grido di dolore sotto forma di una lettera inviata a noi che lo avevamo conosciuto e gli volevamo bene. Questo articolo vuole essere un piccolo risarcimento, alla verità ancor più che all’uomo e all’artista. Imploro i lettori di “Libero” che non hanno mai sentito il nome di Bertini di portare pazienza. Di articoli sui giornali che raccontano ai lettori quello che già sanno, e che li confermano in quello che già sanno, ce n’è fin troppi.
Beninteso, non è che Bertini sia stato un Grande-Grande della pittura italiana moderna. Da astrattista e informale non valeva un Bruno Munari, e tanto per fare un raffronto. Da costeggiatore del “nouveau réalisme” europeo a cavallo dei Sessanta non aveva la forza di un Mimmo Rotella. Da fautore di una sorta di pittura pop all’italiana è rimasto lontano dai vertici raggiunti dal primo Mario Schifano. I suoi quadri migliori, a cominciare dagli acrilici con riporto fotografico da cui irrompono le belle ragazze impudenti dei Sessanta e Settanta, vengono offerti tuttora a prezzi modici da gallerie francesi o italiane. E ammesso che sia questo l’indice decisivo a connotare il curriculum di un artista, la sua importanza, l’indispensabilità della sua presenza in quel determinato contesto culturale.
La sua condanna
Pierre Restany, il grande critico francese che per trent’anni ha fatto da supervisore dell’import-export culturale tra Francia e Italia e che per trent’anni è stato un partigiano accanito dell’opera di Bertini (gli aveva dedicato un libro già nel 1957) non se ne dava pace. Non si dava pace che questo artista a metà toscano e a metà parigino (era sbarcato a Parigi nel 1951 senza sapere una parola di francese), che questo pittore che gli avamposti della pittura moderna li aveva presidiati tutti, non avesse avuto dal mercato dell’arte, dai critici ufficiali, dal grosso pubblico la considerazione che meritava: «Bertini è stato e sarà l’eterno marginale (cosciente) della propria storia, della successione degli stili, dei periodi e dei momenti dell’iconografia contemporanea da lui previsti e all’elaborazione dei quali ha personalmente partecipato», ha scritto splendidamente Restany nel catalogo che nel 2004 presentava una grande mostra di Bertini alla Fondazione Mudima.
Come sempre nelle mostre di Bertini, quel catalogo era anche un libro d’artista (esattamente come nelle mostre e relativi cataloghi del designer e architetto Gaetano Pesce). E come sempre le sue mostre erano innanzitutto un happening “interdisciplinare”, traboccavano di gesti e allestimenti inconsueti che fondevano assieme pubblico e opere. Una volta Bertini festeggiò
un suo libro appena uscito con un party che si tenne a Milano su un jumbo tram allestito per l’occasione; un’altra volta, a Venezia, montò una seggiola e un tavolino su unpozzoedalìsimisealeggere brani del suo libro. La volta che aveva deciso di tornare impudentemente alla figurazione dopo il decennio (1949-1959) di arte astratta, come primo quadro mise in mostra un se stesso nudo (salvo in quel punto cruciale del corpo maschile) con ai piedi il proprio cane. Nell’occasione di una mostra a Bolzano, a fare da invito era un cartolina con un Cristo che faceva i suoi auguri “all’amico Bertini”, ciò di cui un giornalista locale si scandalizzò. Una volta che gli avevano dato un premio, quando lui era poco meno che quarantenne ed era il primo riconoscimento ufficiale che gli avessero mai attribuito, lo rifiutò: che lo dessero a un artista giovane ed esordiente.
Le immagini del moderno Bertini se ne impadroniva, le divorava. “Bertinizzava” il mondo, per dirla con Restany, quel mondo di cui sapeva a puntino che stava dentro una tempesta di mutamenti sconvolgenti. A un artista talmente eclettico e talmente atto al furto delle immagini dei rotocalchi, immagini che lui trasferiva sulla tela emulsionata con un procedimento fotografico, il libro d’artista era un esito quanto mai congeniale.
Dico libro d’artista quello in cui l’autore forza a dismisura la funzione del libro, che pur restando libro si trasmuta in un oggetto d’arte. Splendido è quel suo Comunicazioni interdisciplinari, il catalogo della mostra-performance del 1971 in una galleria milanese. E anche se il libro d’artista più bello cui Bertini ha messo mano è un libro del 1967 edito in pochi esemplari e che riassume le qualità dell’oggetto d’arte, della provocazione culturale, della blague di gran classe. A farlo ci si misero in sette, tutti artisti italiani e francesi all’incrocio tra poesia visiva, poesia sonora, “Fluxus”, la Mec (“Mechanical Art”) che s’era inventato proprio Bertini.
Festival fasullo
Furono loro, forti in tutto e per tutto dell’avere ciascuno cinquemila lire in tasca, a inventarsi e organizzare in dettaglio il Festival de Fort Boyard che avrebbe dovuto svolgersi in sei serate tra il 3 giugno e il 12 luglio 1967 a Fort Boyard, un’isoletta di fronte alla costa occidentale della Francia. Un festival che per ognuno di quei sei giorni prevedeva eventi mirabolanti, e mentre quei marpioni mandavano in giro dei bellissimi manifesti che aizzavano ancor più la curiosità. Furono in molti, la mattina del 3 giugno 1967, a presentarsi nel porticciolo da dove partiva il traghetto per Fort Boyard. Solo che del festival e del suo programma non c’era nemmeno l’ombra.
Era stata solo un’invenzione della parola e della carta, una festa della fantasia e dell’intelligenza. A celebrare questa festa i nostri eroi produssero nel 1967 un libro serigrafico in grosso formato che raccontava e documentava il fanta-festival. Un libro strepitoso edito in 20 copie, anch’esso a metà strada tra la realtà e l’irrealtà da quanto è raro da trovare. Per fortuna di voi che mi state leggendo, una galleria d’arte torinese ne ripubblicò nel 1970 un’edizione economica in piccolo formato in mille copie che se cliccate su e-bay è possibile trovarla e pagarla una somma modesta. Non fatevela sfuggire se amate le feste della fantasia e dell’intelligenza. In onore di Gianni Bertini.