Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  agosto 29 Domenica calendario

Il riso abbonda sulla bocca del sapiente - Cari ciellini che siete in gioioso conclave a Rimini, avete ap­plaudito il vostro leader Giancarlo Ce­sana quando ha attaccato Um­berto Eco, citando una sua fra­se tratta dal Nome della rosa quando dice di temere i profeti disposti a morire per la verità e a far morire gli altri

Il riso abbonda sulla bocca del sapiente - Cari ciellini che siete in gioioso conclave a Rimini, avete ap­plaudito il vostro leader Giancarlo Ce­sana quando ha attaccato Um­berto Eco, citando una sua fra­se tratta dal Nome della rosa quando dice di temere i profeti disposti a morire per la verità e a far morire gli altri. Secondo Eco, bisogna «far ridere della verità, fare ridere la verità». Al contrario voi credete nella veri­tà, la prendete sul serio e amate i profeti disposti a morire per es­sa. Ma io vi invito a distinguere nella frase di Eco perché come, spesso accade, il bene e il male sono mescolati, forse subdola­mente shakerati. Io amo il profeta disposto a sa­crificarsi per la verità, ma temo il profeta disposto a sacrificare gli altri nel nome della sua veri­tà. Ammiro chi si gioca la pro­pria vita per testimoniare la ve­rità, detesto chi gioca la vita de­gli altri per testimoniare la sua verità. E così detesto i nichilisti che deridono la verità e si pren­dono gioco di essa, ma amo co­loro che vogliono far ridere la verità e renderla perfino gioco­sa. Uno scrittore cattolico dice­va che la fede del futuro pogge­rà su una forma più sottile di umorismo. E lo stesso scrittore veniva citato da Papa Ratzin­ger per una sua frase di celeste lievità: «Gli angeli possono vo­lare perché sanno prendersi con leggerezza». Sto parlando di Gilbert Keith Chesterton, cat­tolico e tradizionalista, che spo­sò la fede all’umorismo, la teo­logia alla comicità. Prendete le­zione da lui che criticò il morali­smo del suo tempo senza con questo difendere l’affarismo; e seppe distinguere tra la religio­ne e il clericalismo. Oltre la saga celebre di Padre Brown, il don Camillo british , il prete detective che quarant’an­ni fa Renato Rascel interpretò in Rai e di cui l’editore Morgan­ti sta ora ristampando le opere, sono usciti quest’estate due preziosi libri di Chesterton, Ere­tici e Ortodossia . Li edita (oltre all’ Autobiografia , da pochi giorni in libreria) Lindau che ha già ripubblicato il suo San Tommaso d’Aquino (che pub­blicò l’editore Volpe tanti anni fa)e il suo San Francesco d’Assi­si , oltre al saggio La Chiesa cat­tolica . Il bello di Chesterton è la sua leggerezza, la sua fede che passa dal paradosso, la sua con­fessione di felicità ridente sulla soglia della Chiesa. Pensate che quando morì, Pio XI lo defi­nì defensor fidei , titolo a cui po­tevano un tempo aspirare solo i sovrani. Dicono che i re d’In­ghilterra se la fossero presa, ma loro si erano messi in proprio con lo scisma anglicano e dun­que non potevano pretendere nulla. Chesterton fu anche rice­vuto da Mussolini e si scopriro­no reciproci ammiratori. Ma persino Italo Calvino diceva: «Amo Chesterton perché vole­va essere il Voltaire cattolico e io volevo essere il Chesterton comunista». A vederlo in maturità Che­sterton sembra il nonno di Giu­liano Ferrara, ma il suo peso ha la leggerezza della fede, non è un ateo devoto, ma un giullare di Dio, un catto-comicista. A volte è un po’ stucchevole nella pretesa di far ridere a ogni co­sto e di suscitare sconcerto e sorpresa, gioca troppo con il sentimento del contrario, che secondo Pirandello è la fonte dell’umorismo. Ma Chester­ton ha capito una grandissima cosa: se vuoi parlare oggi di Dio, di religione, di fede e perfi­no di morale, devi saper passeg­giare contromano, andare a ro­vescio tra i paradossi, rendere la bontà accattivante, ridere di ciò che è serio, capire che nel­l’epoca dell’ateismo e della scienza onnipotente il comico è l’unico modo per presentare non dico la verità, che non è di questo mondo, ma la passione di verità che è poi ciò che ci ren­de davvero umani. L’umori­smo è quel che manca a certi cristianucci lugubri e morali­sti, ma anche a certi cupi giaco­bini della fede, che non soppor­tano chi ama la vita e chi sorri­de (per esempio, Berlusconi), considerandolo esempio di pa­ganesimo edonista. E invece Chesterton dice che i pagani ri­dono in apparenza, i veri cristia­ni ridono dentro, hanno quasi pudore della loro gioia ma so­no intimamente felici. Lo scriveva un altro santissi­mo ciccione, san Tommaso d’Aquino nelle sue pagine su La felicità che Umberto Galeaz­zi ha pubblicato ora da Bompia­ni. La felicità è partecipare alla festa degli angeli, dicono i santi e i pazzi. Rovesciando una tesi antica, Chesterton sostiene che il carpe diem toglie riso e de­stino agli uomini, li rende fuga­ci e occasionali, perduti nel giorno. Ed esalta il gusto di be­re, il piacere della tavola e del vino, sangue di Cristo, a cui de­dica un magnifico brindisi, do­ve lo spirituale e lo spiritoso, lo spirito santo e lo spirito dell’al­col si mescolano in gioiosa eu­foria. La fede di Chesterton sorge dopo il nichilismo, come in lui sorse dopo la disperazione; una fede ironica, a tratti frivola, anche se poi nutrita di mistero e dedizione. Al nichilismo, Che­sterton oppone la realtà, il buon senso della vita. Se cre­dessimo veramente al nichili­smo «gli assassini riceverebbe­ro medaglie perché salvano gli uomini dalla vita; i vigili del fuo­co verrebbero denunciati per­ché li sottraggono alla morte; useremmo i veleni come medi­cine e chiameremmo il dottore quando siamo in buona salu­te ». Nel nome di Dio, Chester­ton lega poi democrazia e tradi­zione, ritenendo che siano inse­parabili: la tradizione è un ple­biscito nei secoli, è «la demo­crazia prolungata nel tempo»; e la democrazia, a sua volta, reg­ge sul sentire comune di un po­polo. Si deve a Chesterton la più pe­netrante analisi della pazzia. Per lui il pazzo non è colui che ha perso la ragione, ma chi ha perso tutto tranne la ragione. La follia è la perdita del rappor­to col mondo, non la perdita della mente che anzi ragiona con meticoloso determinismo, inseguendo perfette geome­trie, ma a prescindere dalla re­altà, dalla vita, dagli uomini. «I maniaci di solito sono grandi lo­gici ». Un grano di follia fa lievi­tare la fede, e fa combaciare l’amor di Dio con l’amore per la vita. Il paradosso in fondo è proprio quel grano di follia che fa lievitare la realtà, come il co­mico insegna l’esistenza di nes­si impensati tra gli uomini e le cose. Anche pensando a lui a volte preferiamo il cazzeggio al­­l’analisi, l’ironia alla seriosa esegesi, convinti che nell’epo­c­a delle verità impazzite solo at­traverso il paradosso, il comi­co, la caricatura, sia possibile avvicinarsi alla verità. Il riso ab­bonda sulla bocca dei sapienti.