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 2010  agosto 29 Domenica calendario

NON SI FANNO AFFARI CON GHEDDAFI? MA ANDATE A RAMADAN

Gheddafi torna in visita a Roma, ce­nerà con Berlu­sconi, tratterà al­tri affari con lui; e qualcu­no, stracciandosi il dop­piopetto, scopre l’acqua calda: politica ed econo­mia vanno a braccetto. Però, che intuito. In molti ambienti nazionali - par­lo di banchieri, finanzie­ri, editori- i buoni rappor­ti tra il nostro governo e la Libia sono considerati un’eresia, un sintomo di decadenza e di asservi­mento della democrazia (nata dalla resistenza, dall’antifascismo eccete­ra) alla dittatura spietata del Colonnello. Convie­ne tapparsi gli orecchi per non udire e la bocca per non rispondere con parolacce, altrimenti le dame (Magris, Merlo e Rusconi) si scandalizza­no e ci infliggono lezioni di bon ton lessicale, e an­che stasera ci mandano la cena di traverso. Diciamo piuttosto una verità sgradevole: Silvio Berlusconi talvolta rivela di essere imbranato nella gestione del teatrino del­la politichetta, non capi­sce niente dei discorsi ra­soterra di Granata né di quelli mediobassi di Casi­ni; non sopporta le bolle di sapone di Bersani, né le balle di Di Pietro, però se c’è di mezzo la possibi­lità di raccattare denaro è in gamba come nessuno. Almeno questo glielo dobbiamo riconoscere. Per oltre trent’anni l’Ita­lia ha cercato­di accordar­si con Gheddafi senza riu­scirci, nonostante il lavo­ro certosino delle diplo­mazie. La Libia pretende­va r­isarcimenti per le umi­liazioni ( e i danni materia­li) inflitte al suo popolo da Mussolini con le sue velleità colonialistiche. Noi, da esperti giocatori delle tre tavolette, cerca­vamo invece di cavarcela con un pugno di lentic­chie e nel contempo chie­devamo in cambio ocea­ni di petrolio. Siccome su queste basi era impossibi­le raggiungere un’intesa, Gheddafi ogni tanto lan­ciava sulla Sicilia un mis­sile d’avvertimento: oc­chio ché vi spacco la fac­cia. E l’Andreotti di turno si affrettava a rassicurar­lo: no dài, non fare il catti­vo, vedrai che ti sgancere­mo qualcosa.
Si è andati avanti così al­lo sfinimento, tra minac­ce e promesse, senza combinare un tubo. In­tanto dal Nordafrica giun­gevano ogni giorno a Lampedusa centinaia di immigrati clandestini per la gioia del ministero dell’Interno. Poi è com­p­arso sulla scena quel pa­sticcione di Berlusconi e molto è cambiato. Cava­liere e Colonnello si sono incontrati, non sappia­mo che diavolo si siano detti, sta di fatto che in quattro e quattr’otto han­no stretto un patto. La Li­bia si tiene i disperati in procinto di imbarcarsi per venire nel Belpaese, e noi saldiamo il debito a una condizione: tu, caro Gheddafi, ogni volta che costruisci un muro, rea­lizzi un’autostrada o una qualsiasi opera pubblica, ti rivolgi per l’esecuzione materiale alle nostre im­prese, tipo Impregilo, per intenderci. Affare fatto.
Sottoscritto il contrat­to, da quel momento a Lampedusa non ha più messo piede un extraco­munitario. È poco? Per 5 miliardi che verseremo al Colonnello in vent’anni, avremo in cambio da Tri­poli appalti fino a 70 mi­liardi. E sorvoliamo sulle agevolazioni nell’impor­tazione del greggio. Fate il conto della serva e verifi­cate se meritava o no se­dersi sotto la tenda e fare quattro chiacchiere con Gheddafi.
Tra l’altro, occorre ri­cordare che mentre in passato i governi italiani schifavano il Signore dei Cammelli, questi nella Fiat diventava socio del Signore degli Agnelli. Do­manda: se «pecunia non olet» per la fabbrica tori­nese di auto, perché do­vrebbe puzzare per lo Sta­to? Berlusconi poi, che da­vanti al denaro non ha mai avuto sensibilità olfattive, fi­guriamoci se doveva lasciarsi impressionare dagli afrori dei dinari libici. Qua la mano, fuo­ri il grano e amicizia lunga.
Questa la raffinata filosofia economica del Cavaliere che ha convinto il Cammelliere. C’è da obiettare? Lo sappiamo, lo sappiamo: il Colonnello è un despota con il quale un pre­mier democratico non dovrebbe avere nulla da spartire. Ma se la regola vale per Berlusco­ni, dovrebbe valere per tutti e per sempre. In­vece risulta che Arafat - per citare il peggior terrorista - sia stato ospite non solo del Quiri­nale ma anche del Vaticano, e che tuttora l’Autorità palestinese sia foraggiata dall’Eu­ropa.
E che dire della Cina? Sarà anche un Paese capitalista, ormai, ma il suo regime politico, con rispetto parlando, resta comunista. Ep­pure non c’è esecutivo (e imprenditore) ita­liano che non arrivi a Pechino col cappello in mano nella speranza di assicurarsi qualche spicciolo.
Abbiamo avuto relazioni con le dittature di tutto il mondo. Quando Breznev morì, mez­zo Parlamento si recò a Mosca a rendergli omaggio senza vergognarsi. La circostanza che il defunto tiranno fosse stato un degno successore di Stalin, anche come organizza­tore dello sterminio sistematico degli opposi­tori, non ridusse la nostrana partecipazione al lutto sovietico. Chissà perché adesso, vice­versa, se il presidente del Consiglio è pappa e ciccia con Putin bisogna deplorarlo, e dirglie­ne quattro perfino se dalla Russia ci porta a casa montagne di quattrini.
Quelli che ce l’hanno con lui - badate bene - sono gli estimatori dell’Iran, i fautori del dia­logo con gli impiccatori dei dissidenti. E do­vremmo prenderli sul serio? Mandiamoli a Ramadan.