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 2010  agosto 31 Martedì calendario

CHE COSA VOLEVA SHARON QUANDO LASCIÒ GAZA

Non sono riuscito a trovare mai conferma o smentita ad un articolo, comparso sulla N.
Y. Review of Books tempo fa, quando il provvedimento per l’abbandono di Gaza era stato portato in discussione da Sharon al Parlamento israeliano. Nell’articolo si riferiva quanto dichiarato da uno stretto collaboratore di Sharon in una riunione con i leader dell’opposizione al provvedimento in parola. Non ricordo il nome del collaboratore di Sharon ma ricordo il senso delle sue dichiarazioni che sintetizzo: «Non crederete davvero che noi vogliamo abbandonare Gaza ai palestinesi. Però l’opinione pubblica mondiale anche in Usa ci chiede un gesto di distensione e noi siamo certi che i palestinesi, lasciati a loro stessi e in quelle condizioni, ci daranno ampie giustificazioni per intervenire di nuovo». Può confermare o, magari, smentire quanto ho riportato?
Lupo Osti, glosti@tiscali.it
Caro Osti, la sua lettera mi è giunta da qualche tempo, ma soltanto ora ho trovato l’articolo a cui lei si riferisce. È un saggio di Henry Siegman intitolato «Sharon and the future of Palestine» ed è apparso nella
New York Review of Books del 2 dicembre 2004, tre mesi dopo il discorso con cui il Primo ministro Ariel Sharon aveva annunciato la sua intenzione di ritirare le truppe israeliane da Gaza e suscitato l’opposizione del Comitato centrale del suo partito (il Likud). L’autore è uno dei maggiori conoscitori della questione palestinese. È stato rabbino, dirigente del l ’ American Jewish Congress, esperto di questioni medio-orientali nel «Council on Foreign Relations» e professore dell’Università di Londra.
Nel suo articolo l’autore notava che l’iniziativa di Sharon aveva fatto di lui, agli occhi di molti osservatori, un redivivo De Gaulle: un evidente riferimento all’uomo di Stato francese che era andato al potere per conservare l’Algeria alla Francia e aveva avuto il coraggio di accettarne l ’ i ndipendenza. Siegman non ne era convinto. Aveva l’impressione che Sharon non avrebbe creato le condizioni necessarie per l’indipendenza della Palestina e ne vedeva la prova in due circostanze. In primo luogo il Primo ministro israeliano aveva deciso il ritiro delle truppe e lo smantellamento di quattro insediamenti ebraici (8.000 persone) unilateralmente, senza farne oggetto di trattativa con l’Autorità palestinese. In secondo luogo non aveva mai smesso, anche dopo l’annuncio, di promuovere la creazione di nuove colonie ebraiche nei territori della Cisgiordania. Siegman ammette che la sua tesi sarebbe parsa a molti una diffamazione. Ma era stata confermata da una intervista di Dov Weissglass (forse è questa la persona di cui lei non ricorda il nome) al giornale Haaretz dell’8 ottobre 2004. Intimo collaboratore di Sharon e suo capo di gabinetto, Weissglass aveva dichiarato al quotidiano israeliano che la partenza da Gaza aveva per scopo quello d’impedire il processo di pace. Si vantava di essere riuscito a fare approvare il ritiro dagli americani e aggiungeva: «In effetti l’intero pacchetto chiamato Stato palestinese, con tutto ciò che esso comporta, è stato definitivamente rimosso dalla nostra agenda».
È naturalmente possibile che le dichiarazioni di Weissglass servissero soprattutto a disorientare il fronte anti-Sharon della politica israeliana per consentire al Primo ministro di realizzare la prima fase di un piano destinato forse ad avere altre tappe. Ma anch’io, come Siegman, ho sempre pensato che Sharon volesse sbarazzarsi di Gaza perché 8.000 coloni non valevano lo sforzo militare che Israele faceva per la loro protezione; ma non avesse alcuna intenzione di rinunciare all’effettivo controllo della Cisgiordania.
Sergio Romano