Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 31/08/2010, 31 agosto 2010
L’ANARCO-CAPITALISMO DI GOOGLE E L’INEDITA ALLEANZA TRA STAMPA E TV
Sarà anche libertarien de gauche, come ironizza la rivista francese Multitudes, ma Google accumula ricchezze meglio di tante imprese meno «progressiste»; come queste fa accordi, vedi quello con l’americana Verizon, per controllare i mercati generati dalle reti telefoniche di nuova generazione; e più di queste incontra difficoltà con Authority e tribunali, chiamati a tutelare la concorrenza e la privacy. D’altra parte, l’anarco-capitalismo della multinazionale di Mountain View coinvolge questioni di profondo spessore democratico come il pluralismo dell’informazione (che soffre quando le risorse e il potere si concentrano troppo e con troppa opacità) e la salvaguardia dei dati personali dall’abuso che può venire non solo dalle dittature (il governo cinese vorrebbe informazioni sulle mail dei dissidenti), ma anche dai grandi clienti pubblicitari di Google (che entrerebbero nella vita degli altri per renderli consumatori compulsivi) e pure dal governo americano (al quale Google non negherà certo, alla bisogna, i segreti della sua banca dati planetaria).
La semestrale 2010 aggiunge miliardi al mito di Sergei Brin e Larry Page, i fondatori. Mentre il mondo coltiva ansioso i semi di una ripresa troppo modesta, Google baldanzosamente aumenta del 23% i ricavi, tutti da pubblicità, e del 30% gli utili, portandoli rispettivamente a 13,6 e a 3,8 miliardi di dollari. Poiché il secondo semestre è sempre migliore del primo, a fine anno i numeri saranno più che doppi, e il tesoro in cassaforte, pari a 19,3 miliardi, salirà a 23-24 miliardi. Google riesce nel miracolo perché il suo modello d’impresa è vincente, ma forse anche perché si riserva di diminuire i margini unitari retrocessi ai fornitori di contenuti, che hanno aderito ai suoi programmi, in costanza di tariffa per gli inserzionisti. E questo in virtù di un potere di mercato fortissimo e crescente.
L’Italia costituisce una delle frontiere su cui Google si gioca il predominio. La sentenza di Milano sulle sue violazioni della privacy rischia di fare giurisprudenza nel mondo. Ma ora è il confronto con l’Antitrust e, più avanti, con l’Autorità di garanzia delle Comunicazioni (Agcom) a tenere banco.
Il mercato dei motori di ricerca, come quello della tv commerciale, ha due versanti strettamente collegati: il primo è costituito dall’offerta gratuita della ricerca per parole chiave di siti online, dove Google detiene una quota del 70-80% nel mondo, del 90% in Italia; l’altro mercato è formato dalla vendita di parole chiave ai siti che vogliono essere raggiunti dai potenziali clienti, e qui Google ha un predominio difficile da quantificare per l’opacità dei bilanci ma di sicuro solidissimo, grazie a un’audience senza confronti con gli altri motori.
Google attrae buona parte del pubblico collegandolo ad articoli e video, selezionati in base a criteri suoi, non verificabili, e senza remunerare gli editori: lo stesso pubblico che poi rivende agli inserzionisti attraverso il programma Adwords. Agli editori Google offre il programma Adsense, in base al quale riconosce loro un
quid sui ricavi senza che questi lo possano contrattare. Chi accetta viene definito affiliato, e la parola dice tutto.
All’Antitrust italiano, che ha aperto un procedimento per abuso di posizione dominante, Google propone due rimedi principali: un meccanismo, che consente all’editore di escludersi dal notiziario restando però dentro il motore di ricerca; la comunicazione della percentuale riconosciuta ai fornitori di news sui ricavi di Adsense. La Federazione italiana degli editori (Fieg) considera tali rimedi insufficienti. Autoescludersi dal notiziario, che compare sempre in alto nella prima paginata di ricerca, equivale a depotenziare la presenza del giornale online in rete, dato il monopolio degli accessi che Google ha saputo costruire. La percentuale sui ricavi dice poco se non se ne sanno l’ammontare e la formazione in relazione ai costi che Google vi carica.
Gli editori, evidentemente, puntano a un accordo tra parti consapevoli per la condivisione dei ricavi, nella convinzione che si può anche tentare di vivere oltre la legge, ma di eccessi alla fine si muore. E tuttavia Google è forte di un successo meritato che può illudere. Google predica la gratuità e la libertà. Argomenti buoni, e però rappresentativi solo di metà della verità. Come Silvio Berlusconi usò da par suo il pubblico della tv commerciale contro i tentativi radicali di regolazione della comunicazione in Italia, così su scala planetaria, contro chiunque esiga trasparenza, Google si fa scudo degli internauti, destinatari di un servizio che non pagano (finora) con i soldi ma con la disponibilità a farsi bersaglio di avvisi pubblicitari. È possibile che l’Antitrust prenda per buoni i rimedi proposti da un’azienda il cui capo, Eric Schimdt, insulta i giudici italiani e fa cartello con Verizon in nome del ritorno degli investimenti nell’infrastruttura e in barba alle proteste dei delusi davanti alla sua sede californiana. Ma già si sta aprendo un secondo fronte: la consultazione pubblica sul documento dell’Agcom sui mercati rilevanti e l’analisi del settore pubblicitario. Sembra cosa tecnico-burocratica, ma contiene una mina. Per un peccato di provincialismo, la legge Gasparri non ha inserito i motori di ricerca nel Sistema integrato della comunicazione (Sic), che comprende perfino le promozioni nei supermercati. Ma l’Agcom ha facoltà di chiedere al legislatore la correzione dell’errore. E diversamente dall’Antitrust, che interviene solo contro gli abusi di posizione dominante, l’Agcom ha il compito di superare le eventuali posizioni dominanti in quanto tali nei mercati rilevanti della comunicazione. Ed è su questo fronte che stampa e tv, di solito antagoniste, possono trovare l’occasione di una convergenza per aggiungere al Sic il mercato rilevante dei motori di ricerca e il suo padrone. Guardando al futuro.
Massimo Mucchetti