Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 31/08/2010, 31 agosto 2010
LA MORTE DEL PILOTA TREDICENNE. QUANDO SI RISCHIA TROPPO PRESTO
Dicono che conoscendo il mondo delle moto, non bisogna troppo stupirsi. Raccontano che Valentino ha cominciato a correre a sei anni, Lorenzo a cinque, Stoner a quattro o forse addirittura a tre anni, e così via. È normale: per diventare campioni a 16 o a 18 anni, come in tutti gli sport, bisogna cominciare da piccoli. È normale. «Moto racing is dangerous». il motociclismo è pericoloso. Ciò non toglie che per chi non ha mai frequentato i circuiti, la morte di un bambino di 13 anni in seguito a un incidente sulla pista di Indianapolis sia una di quelle notizie che lasciano sbalorditi e increduli. È successo, domenica, che Peter Lenz, un ragazzino di Washington, caduto dalla sua Honda Moriwaki 250 durante un giro di ricognizione della categoria Us GpRace Union, è stato travolto da un’altra moto ed è morto poco dopo. A niente è servito il massaggio cardiaco dei medici. Il padre ha dato l’annuncio un paio d’ore dopo su Facebook: «Peter è deceduto facendo quello che amava. Lassù correrà più forte».
Qualcuno si è precipitato a commentare su un blog: «Coloro che si sono permessi di fare commenti sulla giovane età del centauro, oltre a essere degli imbecilli, probabilmente non conoscono nulla degli sport motoristici e farebbero bene a tenere la bocca chiusa». A bocca chiusa, si potrebbe postillare che già la parola «centauro» accostata a un bambino fa venire il capogiro, e che ci vuole una bella dose di pura follia per considerare normale che un ragazzino rischi la vita con il consenso di papà e mamma. Per quali oscure ragioni? Per appagare l’ansia di successo (e di denaro?) dei genitori (e di chi, se no?). Per soddisfare un’ambizione familiare che in passato è stata frustrata? Per semplice debolezza dell’autorità paterna e materna? «Per la sua passione», ribadiranno quelli (proprio convinti o ipocriti?) che frequentano il circo delle moto, ma non vale la pena rispondere che anche le passioni, spesso, hanno qualcosa di insano, specie se vengono istillate, trasmesse, o banalmente assecondate in età troppo giovane. Certe volte, c’è da essere fieri della propria imbecillità di genitori prudenti. Tra l’iperprotettività dilagante nei confronti dei figli e l’incoscienza, la sconsideratezza, la temerarietà, la fierezza emulativa (chiamatela come volete), sarà lecito ritenere che esistono pure delle sfumature intermedie senza bisogno di passare per moralisti. E saranno moralisti anche quelli che si stupiscono nel constatare che domenica l’incidente di Peter non è bastato a interrompere la corsa?
Non è certo la prima volta che un adolescente guadagna la dignità della cronaca per un’impresa sportiva da persone adulte. Qualche settimana fa un altro tredicenne, californiano, più fortunato del povero Peter, si è conquistato inni di meraviglia e di gioia per aver scalato l’Everest polverizzando il record precedente di un nepalese di 16 anni. Il sogno di Jordan Romero era raggiungere la vetta più alta del mondo per staccarne un pezzetto di roccia, farne un ciondolo da portare per sempre al collo ed esibirlo ai compagni. Gli è andata bene, ha superato la cosiddetta «zona della morte» e i suoi genitori, alpinisti accaniti, ne vanno fieri, forse hanno coronato, pure loro, un sogno di gloria. Del resto, a dieci anni Jordan aveva già scalato il Kilimanjaro, il McKinley e l’Aconcagua. Giunto sull’Everest, la foto del «ragazzo prodigio» avvolto nella bandiera americana, con il suo casco di capelli biondi sulla testa, ha fatto il giro del mondo.
A proposito di giro del mondo. L’anno scorso la velista Laura Dekker, 14 anni, fu rintracciata nelle Antille olandesi e fermata dal Tribunale dei minori di Amsterdam che ritenne troppo rischioso il suo progetto di circumnavigare il pianeta e le impose di tornare a casa. Non potevano fermarla prima i suoi genitori, sia pure divorziati? Il padre era un suo «supporter», la madre si opponeva. L’impresa agognata da Laura, che nel frattempo è ripartita, è invece riuscita quest’anno a un diciassettenne inglese, Michael Perham, entrato nel Guinness dei primati per aver compiuto in solitaria il giro del mondo dopo aver passato nove mesi e mezzo in alto mare a bordo di una barca di 15 metri. Ma i record adolescenziali in vela non si contano: il nome del diciassettenne Zac Sunderland e quello dell’australiana sedicenne Jessica Watson non sono certo ignoti agli esperti della specialità. Il 10 maggio scorso alle quattro del pomeriggio, Jessica, dopo 210 giorni di viaggio, è stata accolta nel porto di Sidney da una folla festante di fans, compreso il primo ministro australiano.
Fatto sta che fra i tredici e i diciassette anni c’è una bella differenza. E dà una fitta al cuore osservare su You Tube il filmato del piccolo (piccolo) Peter Lenz sorridente — la felpa arancione da bambino e un tutore alla gamba sinistra (probabilmente per una precedente frattura) — che spiega con voce infantile e allegra le ragioni della sua «passione». E alla fitta al cuore, sapendo com’è finita la sua breve vita, si aggiunge la rabbia quando si passa in rassegna, nel suo sito, la lista infinita di sponsor prima di vederlo sfrecciare in pista sul suo bolide rosso. Bisogna andare alle «news» per trovare, dopo le notizie dei tanti successi passati, l’ultimo messaggio paterno.
Paolo Di Stefano