Elisabetta Rosaspina, Corriere della Sera 31/08/2010; Lorenzo Salvia, ib., 31 agosto 2010
2 articoli – LEZIONI SUPPLEMENTARI AI PIU’ BRAVI. IL MODELLO SPAGNOLO A SCUOLA — Non è mai troppo presto per individuare un piccolo genio
2 articoli – LEZIONI SUPPLEMENTARI AI PIU’ BRAVI. IL MODELLO SPAGNOLO A SCUOLA — Non è mai troppo presto per individuare un piccolo genio. Ed è anche possibile che i normali programmi scolastici gli vadano un po’ stretti e le sue potenzialità non siano coltivate. Non è forse vero che anche i migliori possono migliorare? L’interesse del ministero dell’Educazione spagnolo si sposta dunque sui grandi dimenticati della scuola dell’obbligo: i primi della classe. E promette che, dal prossimo gennaio, ai migliori allievi dell’Eso, la scuola secondaria obbligatoria (che si frequenta fra i 12 e i 16 anni), saranno offerti gratuitamente corsi fuori orario di approfondimento della o delle materie nelle quali eccellono. Il progetto è stato anticipato ieri da Miguel Soler, direttore generale della Formazione Professionale del Ministero, all’inaugurazione dei Corsi di formazione del corpo docente dell’educazione infantile e primaria dell’università internazionale Menendez Pelayo di Santander. Secondo Soler, l’iniziativa dovrebbe aiutare a colmare le lacune riscontrate in Spagna da ricerche internazionali, come gli studi Pisa-Ocse, ai due estremi della classifica del profitto scolastico: da un lato quel 30% di alunni che nemmeno arrivano al diploma di media superiore, dall’altro quell’imprecisata quantità di giovanissimi talenti che potrebbero arrivarci in largo anticipo e ai quali non viene dedicata invece alcuna attenzione speciale. Perché, di solito, ci si preoccupa di sostenere chi resta indietro e non di potenziare chi già rende tutto quanto gli è richiesto dalla scuola. Da qui l’idea di sviluppare, con le Comunità autonome, una corsia riservata per quanti hanno una marcia in più: «Da noi esiste una lunga tradizione in proposito: due scuole d’eccellenza, la Ortega y Gasset e la Blas Cabrera, offrono programmi specifici e incentivi a neo diplomati particolarmente brillanti — informa Virginia Maquieira D’Angelo, vice rettore della Menendez Pelayo —; ma è indispensabile formare anche la classe docente e lo staff direttivo perché questi progetti funzionino davvero». E 12 anni non sono pochi per essere trattati da fuoriclasse? «No, a quell’età c’è già modo di motivare la crescita, premiare i risultati, valorizzare le inclinazioni. È uno strumento che va certamente articolato secondo i diversi livelli educativi, ma indispensabile per la grande trasformazione di una società della conoscenza». Appena annunciato, comunque, il proposito del governo ha subito sollevato dubbi e obiezioni: e se alla fine si rompesse il principio di equità che regola la scuola dell’obbligo? E se, a emergere, fossero inevitabilmente i rampolli delle famiglie benestanti che dispongono, a casa, di buone librerie e solide tradizioni culturali? «Nella selezione si terrà conto non soltanto dei risultati scolastici, ma anche di inclinazioni, interessi, motivazione degli allievi — ha specificato Soler —. E saranno i professori a segnalare non solo i migliori in tutte le materie, ma anche chi si distingue in una in particolare». Il rischio che ragazzi brillanti, ma senza mezzi finanziari, restino esclusi è tuttavia alto, come dimostra l’esperienza di un professore ora in pensione, Francisco Caballero, che all’Istituto La Sisla di Sonseca (Toledo) fu tra i primi con classi per l’insegnamento in inglese di alcune materie: «Entravano quelli con le valutazioni migliori — testimonia al quotidiano El País — e in maggioranza appartenevano a famiglie di alto livelloso-cio-economico». Ciò non toglie che l’esperimento si sia dimostrato proficuo: «Spendendo la metà della metà di quanto si investe nei programmi di sostegno per gli studenti che vanno peggio». Per l’ex sottosegretario all’Educazione, Alejandro Tiana, la valutazione degli scolari meritevoli di un trattamento extra non va lasciata al solo professore: «Occorre anche un riscontro esterno, o può prodursi l’effetto Pigmalione». Da gennaio, in ogni caso, anche ai primi della classe toccheranno gli straordinari. Elisabetta Rosaspina ITALIA SENZA PROGETTI PER I PRIMI DELLA CLASSE. «LA SUPER INTELLIGENZA FA PAURA» — Un tempo dicevamo bambino prodigio, poi abbiamo cominciato ad usare piccolo genio (come nel film di Jodie Foster), poi ancora il burocratico plusdotati. L’Università di Pavia, tra le pochissime ad occuparsi del misterioso caso, ha addirittura bandito un concorso ad hoc. Ed alla fine la scelta è caduta su «fartughe», cioè quelli che vorrebbero volare come farfalle e sono costretti ad andare piano come tartarughe. Ecco, in Italia siamo ancora alla ricerca della parola giusta. Ed è il segnale che sul tema, a differenza di quanto sta per avvenire in Spagna, siamo ancora all’anno zero. A livello nazionale non ci sono progetti tagliati su misura per i ragazzi che fin dal primo giorno di scuola si dimostrano chiaramente più svegli degli altri. Anzi, non sappiamo nemmeno cosa voglia dire plusdotato, bambino prodigio o fartuga, perché non esiste uno standard, una scala che ci consenta di capire se la mente di quel bambino sia davvero eccezionale oppure no. Certo, qualche scuola si è posta il problema. Ma prima di arrivare alle lezioni dedicate agli studenti speciali ci siamo fermati agli incentivi per spingerli a sgobbare di più: un liceo di Ancona, il Savoia, spediva i suoi pezzi migliori a seguire i corsi di fisica e di informatica al Politecnico di Torino, ad esempio. L’istituto tecnico industriale Rosatelli di Rieti regalava ai più bravi un viaggio premio. Diverse scuole, prima di andare in bolletta ed essere costrette a chiedere soldi ai genitori, hanno regalato una piccola somma a chi finiva gli studi con il massimo dei voti. Ma è un’altra storia. Per trovare l’unica traccia paragonabile al progetto spagnolo bisogna entrare nelle scuole Faes, istituti finanziati dalle famiglie con una retta intorno ai 4 mila euro l’anno, che seguono il modello di Josemaría Escrivá, fondatore dell’Opus Dei, e forse non a caso spagnolo pure lui. «Per i nostri studenti — racconta Claudio Marcellino, segretario generale dell’associazione Faes, e professore di filosofia e storia al liceo da Vinci di Milano — abbiamo un’attività di tutoraggio che mira ad individuare potenzialità e lacune. Fuori dall’orario classico, offriamo attività aggiuntive anche per sviluppare le qualità di chi si dimostra particolarmente dotato in alcune materie». Finora la scuola italiana si è sempre concentrata su chi rimane indietro, lasciando andare per la sua strada chi potrebbe correre di più. Giusto o sbagliato? «Una cosa non dovrebbe escludere l’altra — dice Giorgio Rembado, presidente dell’Associazione nazionale presidi — ma con i tagli degli ultimi anni mi sembra difficile trovare i soldi anche per questo». Il problema, in realtà, non è mai stato al primo posto nella scala delle priorità. «E questo perché nel nostro Paese, come in tutta Europa, la super intelligenza fa ancora paura» dice Federica Mormando, ex bimba prodigio, psicoterapeuta e già docente all’Università di Bergamo di «Riconoscimento e didattica dell’allievo superdotato». Perché abbiamo paura delle super intelligenze, professoressa? «In generale temiamo che i super intelligenti possano prendere il potere e quindi li consideriamo potenzialmente antidemocratici. Gli anni Settanta e l’egualitarismo hanno portato alla negazione delle differenze in più, lasciando vedere solo le differenze in meno, che non fanno paura a nessuno». In altri Paesi non è così. I corsi o addirittura le scuole per i migliori sono una realtà negli Stati Uniti, in Israele, in Cina. «E lo erano in Unione Sovietica con Akademgorodok, la cittadella della scienza dove venivano concentrati i piccoli geni della matematica». Quello era un metodo sbagliato, secondo la professoressa. «Ma delle lezioni supplementari per stuzzicare la curiosità e allargare gli orizzonti, quelle sì che sono utili». Lorenzo Salvia