Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 31/8/2010, 31 agosto 2010
BELLOCCHIO: RACCONTO LA MIA FOLLIA
Nell’ufficio romano di Marco Bellocchio, anonima gabbia al piano terra di un palazzone romano appoggiato alla Nomentana, in cui sostenere il peso delle idee tra pile di sceneggiature, fotografie in bianco e nero, cartoline autografe del ventennio e tomi di Hegel, siede il regista che porta il suo nome. L’intera opera di Bellocchio poggia sulla rivolta. Al sistema e alle sue ipocrisie. Vaticano, famiglia, esercito. Ventiquattro film in mezzo secolo di attività. Premi, polemiche, divieti, riflessioni. Bellocchio non ha fretta. Ha tempi da artigiano, pause, ripensamenti continui. Negli occhi stretti, la febbre dell’ex allievo dei Barnabiti che all’alba dei ’60, con “I pugni in tasca” destrutturò un secolo e mezzo di consuetudini borghesi. Quando prolunga un ragionamento, si fa aiutare dalle mani. Allora disegna progetti nell’aria, per poi riposare in attesa di una nuova partenza. E’ timidezza, tormento, curiosità. Nel suo recinto, la sinistra potenza dell’immagine non corrisponde mai allo sforzo economico. E’ un giardino di visioni e incubi, estremamente riconoscibili, che descrivono da una prospettiva ravvicinata la vigliaccheria del sopruso, senza promettere epifanie di salvezza. Alle figure cui tocca la sua metaforica carezza, capita di rimanere nella memoria. La Chiesa di una vita, non l’ha ancora trovata. Così bussa, interroga, si appassiona, abbraccia e rifiuta. Ad ottobre, le stagioni saranno settantuno. Quando a intervista conclusa, gli prospetti il futuro, accelera il congedo: “Qualcosa faremo, proveremo a non annoiarci”. Accompagna, saluta, chiude la porta. Solo. Finalmente.
Lei planò sul cinema italiano con una molotov come “I pugni in tasca”. L’incendio fu immediato.
Avevo soltanto ventisei anni. Ero immaturo, entusiasta, inconsapevole. Quella de “ I Pugni in tasca” è una piccola storia, paradigmatica di quanto intenzioni e risultato non siano mai in stretta parentela tra loro.
Nel bianco e nero de “I pugni in tasca”, pulsava un apologo crudo, rivoluzionario e disturbante, terribilmente reale, sulla famiglia e sulle sue infinite contraddizioni.
Perché è da lì, dall’infanzia in famiglia, che ogni infelicità ha inizio. Ciò che siamo è ancora, almeno in parte, segnato da quei primi anni.
C’è chi ne “i Pugni in tasca” ha letto tutti i fermenti sociali del ’68.
L’idea di fare riferimento a un discorso politico non c’era. Tutto il cuore della prigione familiare che descrivevo, la sua chiusura autistica, le grida strozzate, escludeva la politica.
Ma, pare di capire, non è certo.
Io penso alla fugace fiamma del ’68 come a un atto gioioso di contestazione dell’esistente .L’autorità irrisa, la rivoluzione sessuale, la gente che scopava per la prima volta, quella che lasciava il tetto natìo e che mandava a quel paese i genitori. Un’apparente allegria senza una violenza esplicita. (...) Personal-mente, non ho mai torto un capello a nessuno.
I suoi rapporti con Il Pci erano conflittuali.
Avevo respirato un radicalismo anarchico, fortemente antipartitico, con cui l’immobilità del Pci, neanche con il più acrobatico dei compromessi, poteva coincidere. Arrivai ai bordi del 1968 a trent’anni. Né giovane, né vecchio. Nel 1967, a fine novembre, alcuni amici mi consigliarono di andare a Torino. “All’Università tirano i libretti sulla cattedra , non è mai successo nulla di simile fino ad ora”.
Lei andò?
Di corsa. Arrivai a Palazzo Campana. Fummo dolcemente sgomberati dagli agenti. Noi e i poliziotti, gli uni davanti agli altri, senza astio. Gli agenti furono cortesi, noi li lasciammo fare. Qualche mese dopo e poi, tragicamente negli anni successivi, prevalse l’idea dell’indispensabilità dell’organizzazione compartimentata per conquistare il potere. Che poi degenerò.
Come è possibile che il regista più rivoluzionario dell’ultima decade dei ’60 finisca poi per confluire in una formazione come “Servire il popolo”?
A distanza di anni quei due passaggi, il ’68 e il mio approdo nel maoismo italiano, mi appaiono chiari. Il vero problema, forse, era soprattutto dentro di me. La mia identità borghese mi era insopportabile. Ero insoddisfatto, disgustato, smarrito. I successi non mi sollevavano il morale, mi pareva tutto senza interesse. La mia vita era entrata in un vicolo cieco, quando l’angoscia diventa fisica, e si affaccia la paura di perdere il controllo…
Ma perché scegliere proprio i maoisti, che del culto della personalità facevano un pilastro delle loro apparizioni pubbliche, del dogmatismo una bandiera ed erano appellati dai rivali con il perfido nomignolo di “Servire il pollo”?
Mi affascinarono la prospettiva di scoprire attraverso la cultura, la storia di altre classi sociali e quelle frasi semplici, in bilico tra demagogia e schematismo: “Gli operai fanno tutto, ma non hanno nulla”. L’imperativo morale prevaleva sul ragionamento politico.
Il partito teorizzava e intanto batteva cassa.
Alcuni, tra cui Lou Castel, smantellarono completamente i propri patrimoni. Io rimasi nel mezzo. Contribuii, ma oculatamente.
Era avaro, Bellocchio?
Pagavo devolvendo parte dei miei guadagni, senza però intaccare il patrimonio familiare peraltro molto medio. Il compagno deputato alla riscossione era calabrese, molto discreto.
Quale era esattamente il suo ruolo?
Non ho mai fatto volantinaggio davanti alle fabbriche o lavorato nei campi. La mia adesione derivò anche da una catastrofe familiare. Alla fine del ’68, mio fratello gemello si suicidò. Una tragedia che mi convinse ancor di più a buttarmi nella politica rivoluzionaria.
Secondo Aldo Brandirali, il Leader di “Servire il Popolo”, all’Unione si avvicinarono per un brevissimo periodo Eco, Bertolucci, Scola, Monicelli, Moravia, Antonioni e persino Tinto Brass.
Mi prestai senza troppa convinzione a una blanda opera di proselitismo. Non ho mai convinto nessuno.
Invitò Moravia ad osservare con i propri occhi?
Facemmo uno di quei convegni oceanici che si concludevano sempre con una liturgia consolidata: “Lunga vita al compagno Brandirali, al compagno Todeschini, a Marx, Stalin, Lenin e naturalmente, al compagno Mao Tse Tung”. Da parte mia mi tenevo sempre un passo indietro. Nelle riunioni di autocritica, me lo rimproveravano. «Compagno Bellocchio, perché sei sempre così pessimista?». Una volta venne in avanscoperta Citto Maselli. Inorridì: “Il Pci è la sola ortodossia comunista, voi siete dei pericolosi estremisti”.
Come uscì da “Servire il Popolo”?
Senza traumi. A Milano forse aiutato dalla distanza, dal lavoro, mi dimenticai letteralmente del partito.
Lei proseguì nella demolizione delle istituzioni. “Matti da slegare”, anticiperà il suo controverso rapporto con lo psichiatra Massimo Fagioli.
Oggi mi è chiaro che era un modo per non vedere la mia follia. Allontanarla. Perché in fondo le mie scelte estreme, sbagliate sempre, rispondevano a un’esigenza sincera, di cui non ero consapevole: Chi sono? O anche: Così non mi sopporto più. La mia pazzia non mi piace più, anzi mi fa paura… Nel 1973, il contesto era devastante. Uccidersi o uccidere. Un deserto senza risposte spinse tanti giovani verso la psicoterapia.
Anche lei?
Anche io. Andai in analisi da uno psichiatra. I risultati non furono straordinari, ma per la prima volta le domande più che le risposte trovarono delle parole. Anche per l’insistenza di un grande amico andai da Fagioli.
Che faceva i seminari di analisi collettiva e definiva Freud “Un imbecille”.
Piero Natoli iniziò a parlarmi degli incontri con Fagioli come di un’esperienza storica. In quell’entusiasmo da neofita, scorsi un pericolo. Ero stato deluso dall’esperienza maoista e non volevo ripetermi. Nell’aprile del 1977 decisi di andare all’analisi collettiva, c’era sempre il tutto esaurito. Lì incontrai anche Benigni.
Oggi Bellocchio come si trova con Bellocchio?
La paura di smarrire fantasia e ispirazione, è passata. Vivo e lavoro cercando di difendere la mia libertà. Poi come è capitato a tutti, a volte ho sbagliato. Faccio un mestiere complicato. Mi sono ingannato, accadrà ancora. Però lasciatemi sbagliare, l’importante è divertirsi. “Ti diverti, ti piace e in più ti pagano”, diceva Mastroianni. Èffettivamente sono fortunato.