Livio Garzanti, Corriere della Sera 29/08/2010, 29 agosto 2010
«UN LIBRO IMPOSSIBILE. COSI’ RIFIUTAI PETROLIO»
Sognavo, quando ero giovane, di scrivere sul «Corriere della Sera». Me ne capita l’occasione quando ormai sono alle porte co’ sassi, come si diceva un tempo e vorrei, prima di affidare alle pagine del giornale qualche tratto delle mie memorie, ricordare Pier Paolo Pasolini. Sono nato editore quando ho pubblicato Ragazzi di vita e ho finito di esserlo attivamente quando, purtroppo, in ben altro tragico modo, si chiuse anche la vita di Pasolini.
Lo avevo incontrato auspice Attilio Bertolucci, raffinatissimo grand gourmand della letteratura e «papa» del mondo letterario romano, mondo che io sogguardavo dal marciapiede. Pasolini era un puro, un cataro, che viveva nelle sozzure peggiori, tra tante epidermidi bitorzolute e ripugnanti incontrate nelle tenebre notturne delle stazioni ferroviarie. La bocca spalancata di Ninetto (che ho incontrato poi amichevole a Forte dei Marmi), la bocca aperta di questi ragazzi incantati!
Conoscevo dalle confidenze di Laura Betti le storie torbide e la tragedia del mio nuovo amico, di questo illuminato da una morale sociale che esplodeva come una necessità fisiologica ad alimentare la fiamma letteraria
Anch’io ho vissuto nel buio le estreme ore di amicizia con lui. Ricordo la nostra ultima notte. Ero a Roma in casa di Attilio Bertolucci e Pasolini mi volle riportare in automobile al mio albergo in via Veneto. Passavano oltre il finestrino le pallide luci della città. Fu la pace che sanava un contrasto di cui non avevo capito la ragione, dovuto — era incredibile, ecco la sorpresa — a una sua vanità letteraria. Pasolini si era infuriato con me perché avevo pubblicato un romanzo di un autore di successo lontanissimo dai tormenti e dalla sincerità dell’artista, colpevole di aver vinto, l’anno prima, l’ambito premio Strega nonostante gli anatemi di Pasolini.
Il ricordo è violento. Approdammo davanti all’albergo. Pasolini scese dalla macchina per primo — cosa che non aveva mai fatto in precedenza — e mi trovai, davanti al cofano, chiuso in un abbraccio strettissimo, silenzioso. Sapevo bene quel che nel suo silenzio Pasolini voleva dirmi.
Pochi giorni dopo ero a Parigi. Vidi nelle vetrine della Hun esposti tutti i suoi libri.
La notte prima dei funerali ero stato sul litorale romano nella casa che Pasolini divideva con Moravia e di Moravia ricordo la freddezza, il taglio secco per farmi, con un’analisi feroce e velocissima, la descrizione della sua morte. Lo stesso Moravia era andato, se ben ricordo, con Furio Colombo ed Enzo Siciliano, alla sodaglia dove Pasolini era stato massacrato e travolto dalle ruote della sua automobile. Sentii così anche il dramma del sangue e poi ebbi in mano, dalla nipote di Pasolini Graziella Chiercossi, i fogli confusi e mal assortiti di Petrolio. Un titolo ad effetto, ottimo per il successo commerciale nello spazio di un mattino molto cupo. In seguito fu dato alle stampe da Einaudi e si volle farlo apparire come un libro autonomo. Un libro che io mi rifiutai di pubblicare. Un libro impossibile nato dal sogno ingenuo di Pasolini che, alla fine della sua esistenza, si sentiva impegnato a far fermentare la cronaca in un’opera che incidesse sul l ’attualità della vita. Lui che della vita era stato il poeta e il supervisore.
Livio Garzanti