Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  agosto 29 Domenica calendario

DIPINGO I MURI D’ITALIA CON LE MANI

Ridare i muri ai pittori. David Tremlett, grande artista inglese, ha ricoperto di forme geometriche stese con le mani la stazione Rione Alto della Metropolitana di Napoli e l’ antica Zecca di via santa Marta a Milano, la cappella dei carcerati a Palazzo Re Enzo a Bologna e con Sol Le Witt la pieve di La Morra, sulle Langhe, tra le vigne del barolo. Ora ha affrescato alla maniera dei pittori rinascimentali il forte di Bard, in Valle d’ Aosta, un’ ora di autostrada da Milano, (di cui non resterà, purtroppo, che la documentazione come spesso accade per i suoi interventi) e la parete di una villa palladiana, Villa Pisani Bonetti, a Bagnolo, dove lo incontro. La sua idea dell’ Italia è lontana dai luoghi comuni. Per Tremlett l’ Italia è l’ altrove, il Paese cui lui, esperto viaggiatore, non riesce a rinunciare: «Sono innamorato dell’ Italia, una terra dolce, di suoni e di colori, dove Giotto e Piero della Francesca hanno dipinto i muri più straordinari della storia. Dell’ Italia amo il paesaggio e le persone. Come una passione di cui non riesci a liberarti. O una famiglia che non vuoi perdere. E poi molta della mia arte è nata qui». A Shelley e a Turner forse era successa la stessa cosa, una sorta di rapimento. Che per Tremlett si fa meditazione dell’ architettura e del paesaggio. «Quando Bruno Ceretto mi mostrò la cappella a La Morra, era semidistrutta ed era usata come ricovero attrezzi. Non volevo affrescarla tutta da solo come le sale del castello Faletti di Barolo, e così chiesi a Sol Le Witt di condividere il progetto. Lui era un maestro nella pittura in esterno, io volevo amplificare lo spazio dentro quel piccolo luogo un tempo dedicato alla preghiera; i vetri delle finestre li feci realizzare a Murano, le vesti per i preti da Ottavio e Rosita Missoni. Lavorammo sei mesi. L’ inaugurazione fu suggestiva. Il compenso pattuito con Ceretto era una promessa: una bottiglia di Barolo al giorno per il resto della vita. Ora però ha qualche anno di ritardo...». Anche il più recente dei progetti cui Tremlett sta lavorando è legato alla terra, ma anche all’ idea di energia. Nell’ azienda Locatelli di Castelbosco, vicino a Piacenza, Tremlett non s’ è accontentato di pareti e soffitti, ma ha voluto misurarsi con lo spazio esterno: «È un luogo del futuro, vi lavorano persone di ogni nazionalità e il letame delle 1.500 mucche è trasformato in energia elettrica». Con i committenti Tremlett ha un rapporto che ricorda quello di epoche passate. Inevitabilmente il pittore finisce per costruire una storia. Pubblica o privata. Come quella a casa di Giovanna e Federico Enriques, ispirata a un’ incisione settecentesca che David ha riprodotto in un pavimento di legno con forme geometriche circolari, metafora della forza e dell’ unicità dell’ amore coniugale. Tremlett, però, è soprattutto un nomade della contemporaneità, il viaggio per lui è alla base della vita e dell’ arte, «è una sfida, un segno di indipendenza». Nel 1971 ha girato il mondo con una piccola cassetta di pastelli, taccuini da disegno, macchina fotografica e del suo cammino verso l’ Australia in autostop ha fatto un’ opera d’ arte oggi alla fondazione Henry Moore di Leeds: «Non avevo idea di quanto fosse lontano l’ Australia, tanto ero ingenuo. Una gallerista di Londra mi finanziava: cento sterline per otto mesi a piedi. Allora non c’ erano voli diretti. Io dovevo spedire cartoline dei luoghi in cui passavo come facevano altri della mia generazione. Oggi non esistono quasi più le cassette della posta...». In realtà quel viaggio non è solo arte. Tremlett vuole ritrovare i genitori partiti per l’ Australia sei anni prima e di cui non ha più notizie. «Mio padre aveva studiato geologia, ma faceva il contadino nella sua fattoria nel Nord della Cornovaglia, dove sono nato. A 55 anni era stanco di quella vita e con mia madre, di dieci anni più giovane, decisero di andarsene. Aspettavano solo che io trovassi la mia strada e cercavano di convincermi ad arruolarmi in marina. Mio fratello, invece, ancora adolescente s’ era già imbarcato per l’ Australia. Mi sono ritrovato costretto all’ indipendenza, ma era un’ occasione di crescita non di dolore: volevo essere libero a tutti i costi. Una volta adulto, dopo la morte di mio padre, per molto tempo ho trascorso da mia madre una settimana all’ anno: le sedevo accanto sul divano e insieme guardavamo la tv senza parlare. Ho sempre provato rispetto per loro, ma non il senso della famiglia che avete voi italiani». David racconta il suo primo periodo a Londra nello studio-garage, dove aggiustava vecchi taxi. Il grasso per gli ingranaggi lo usa ancora oggi nei suoi wall-drawing (disegni sul muro) più audaci, con l’ impronta dei polpastrelli a dare ritmo a quel materiale grezzo, plasmato come fosse oro. «Ero naïf. Volevo essere considerato un artista e mi mettevo in mostra. Se avessi ascoltato mio padre o i professori della Falmouth Art School, non sarei qua. Invece in poco tempo e con sole borse di studio arrivai alla Royal College of Art. Ma non volevo essere uno studente. Trovai uno studio a sud di Londra, dove vivevano Hamish Fulton e la coppia Gilbert&George, che comprava le mie opere per sostenermi. Furono loro i testimoni di nozze al mio primo matrimonio e fu divertente quando firmarono in due davanti al sindaco come fossero un’ unica persona. Sapevamo d’ essere diversi. Nella vita e nell’ arte. Con loro e con Fulton andavamo fino a Düsseldorf per vedere le opere di Joseph Beuys, un innovatore. L’ arte per noi non era solo fare oggetti». Seguiranno altri viaggi in Africa, in Sud America, in Alaska, a contatto con le popolazioni locali, i colori, le forme e i suoni della loro lingua. Tremlett ha lasciato tutto quanto possiede nel baule di una macchina parcheggiata davanti a casa di amici. Al suo rientro, carico di fogli e fotografie, trova il direttore del dipartimento pittura del MoMA che lo cerca per una mostra: «Allora vivevo nel cottage di un maneggio, dove mi occupavo dei cavalli. L’ avevo arredato con mobili di fortuna trovati in una discarica. In seguito la Waddington Gallery mi finanziò uno studio, e Marilena Bonomo mi invitò in Italia. Da lei c’ erano tutti gli artisti internazionali, Le Witt, Mel Bochner, Alighiero Boetti. Non mi aspettavo di trovare un paesaggio così suggestivo nel Sud dell’ Italia: finalmente arrivavo in un posto caldo e affettuoso. Poi incontrai Massimo Valsecchi, un’ amicizia che dura nel tempo. Lui mi ha insegnato cos’ è la qualità e come ottenerne molta con poco. Un’ arte. Nel 1976 via Santa Marta nel cuore antico di Milano, dove c’ è la sua galleria, era una strada autentica, dolce e vecchia. Da un lato l’ hotel con le prostitute attempate, dall’ altro la Trattoria milanese. Lì dipinsi lo spazio dove gli Sforza un tempo coniavano monete. Gli ocra e i marroni sono ormai consumati e Massimo li guarda invecchiare come fossero una bottiglia di buon vino». A Milano Tremlett è legato anche per un fatto di cronaca che è divenuto storia. Era il ’ 93, l’ anno della bomba al Pac, dove lui aveva una mostra. «Una parte del grande wall-drawing andò distrutto nell’ esplosione. Maurizio Cattelan prese i resti, li mise in un sacco e li espose a Londra nella Galleria di Laure Genillard, la mia seconda moglie». «Lullaby» è il titolo dell’ opera di Cattelan che ora è al MAXXI di Roma. «Ma Maurizio, Jeff Koons, Damien Hirst oggi sono soprattutto bravi self promoter - dice David Tremlett -. Ora la gente non ha idea dell’ arte e della sua storia, nemmeno i collezionisti. L’ arte è troppo vicina alla moda, espressione di un mondo ricco e autoreferenziale. Non c’ è più sfida intellettuale o filosofica». Dell’ Italia in crisi non è deluso; piuttosto, disorientato. «Per gli inglesi la politica è qualcosa di cui ci si deve fidare; per questo non amano la vanità negli affari pubblici, mentre l’ adorano per le star del cinema. Berlusconi è un uomo troppo vanitoso, mi chiedo perché gli italiani lo votino. D’ altra parte anche i laburisti vanno verso destra, e al governo c’ è il conservatore Cameron: la sinistra è debole in tutta Europa. Del resto, anch’ io leggo l’ "Economist". Il futuro appartiene alla gioventù cinese e indiana, capace di sacrifici duri come quelli dei nostri nonni».
Rachele Ferrario