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 2010  agosto 29 Domenica calendario

«MERCATO E STATO, IL MODELLO TEDESCO VINCE LA CRISI»

Robert Zoellick aveva perso il badge: quando giovedì si è affacciato al simposio della Federal Reserve a Jackson Hole, le guardie del corpo l’ hanno fermato. Lui non si è infuriato, non ha mandato a chiamare, non ha urlato che è il presidente della Banca Mondiale, ex direttore a Goldman Sachs, ex ministro dell’ amministrazione di George W. Bush. Si è messo in cerca di un altro badge e dopo quindici minuti è tornato. Piccola lezione di pragmatismo di un leader americano che, dopo la grande crisi, vede il mondo cambiare sotto i propri occhi. La classifica delle più grandi aziende globali è sempre più affollata di gruppi cinesi, indiani o brasiliani a controllo statale. È un nuovo modello che si afferma? «Le aziende controllate dai governi esistono da decenni - risponde Zoellick in una pausa della conferenza -. L’ esempio più comune è nell’ energia, se si pensa a Saudi Aramco o alla malese Petronas o al Messico. E anche in Europa le imprese pubbliche hanno un ruolo di rilievo da tempo. Ma è vero che l’ ascesa della Cina ha spinto tutti a riesaminare meglio questa opzione e i suoi effetti». Lei crede che lo Stato imprenditore da ora in poi si affermerà sempre di più? «Non tiriamo conclusioni troppo semplici. Nella stessa Cina l’ agenzia che ha la supervisione delle oltre cento grandi imprese pubbliche vuole sviluppare un consiglio di sorveglianza indipendente. È chiaro che c’ è stato un forte coinvolgimento dei governi nella risposta alla crisi, ma non è qualcosa di inedito. E se si guarda al settore auto in America, semmai il governo ora sta cercando di uscire dal suo ruolo di azionista». Intende dire che il mercato resterà il valore dominante e i governi, finita l’ emergenza, si ritireranno? «Se c’ è qualcosa che mi colpisce è che anche nel pieno di questa crisi nessuno ha davvero rinnegato il mercato. La politica ha le sue priorità, soprattutto nelle fasi elettorali, ma se c’ è qualcosa di cui si parla oggi in Europa, per esempio, è semmai di come ridurre i deficit e i debiti pubblici. È vero che è siamo in una fase di grande fermento, ma non ci sono esiti già scontati in un senso o nell’ altro». In genere dopo un grande choc, come negli anni ’ 30 o negli anni ’ 70, il capitalismo cambia molti dei suoi principi di fondo. Stavolta invece no? «Ci sono sempre lezioni da imparare. Dopo le crisi finanziarie degli anni ’ 90 in Asia e in America Latina si è cercato di sviluppare reti di protezione sociale, che hanno fatto un’ enorme differenza. Il Brasile o il Messico hanno fatto scuola. Prima intere generazioni non avevano abbastanza da mangiare e abbandonavano il sistema educativo. Allo stesso modo l’ esempio cinese sta insegnando a molti Paesi in via di sviluppo come si investe in infrastrutture». E in Occidente? «Non dico che non ci si debbano porre delle domande, per esempio su come funzionano il sistema del credito o i suoi regolatori. Ma quello che davvero serve è una buona dose di pragmatismo. Ho sempre pensato che l’ ipotesi sui mercati efficienti, l’ idea che il mercato ha sempre ragione, fosse troppo semplice. Quando vivi nei mercati, come a me è capitato, vedi subito che sei in un equilibrio che non è sempre efficiente. La gente così guadagna i suoi soldi. Bisogna capire meglio le psicologie e il funzionamento delle istituzioni, non basta dire che il mercato è sempre razionale e il futuro è prevedibile con i modelli matematici. Come dicono i cinesi, meglio saggiare le pietre sotto il pelo dell’ acqua quando traversi il fiume». Sergio Marchionne vede Fiat operare in molti Paesi, inclusi gli Stati Uniti e il Brasile. E conclude che soprattutto in Italia i lavoratori non capiscono e non accettano il cambiamento. È solo questione di culture diverse? «Stiamo attenti, perché a volte si creano pregiudizi errati su come funzionano le diverse culture. Prendiamo la Germania: immagino sia da considerare parte della Vecchia Europa, ma guardiamo quello che ha fatto per ristrutturare e diventare più efficiente a livello d’ impresa». Qualcosa del genere dovrebbe avvenire anche in Italia? «Ci sono infiniti modi diversi in cui le varie società possono adeguarsi. Ma il punto centrale è che la gente, ovunque, deve continuare a prepararsi e adeguarsi al cambiamento. In qualunque sistema in cui i comportamenti diventano troppo rigidi, gli interessi particolari prendono il sopravvento e la gente cerca di tenersi strette le proprie prerogative mentre il mondo intero intorno a loro cambia, l’ esito è scontato: si stanno preparando nuovi problemi». Non è facile chiedere a un lavoratore italiano o europeo di guadagnare meno, o di rinunciare alla sicurezza del posto, perché la Cina è in ascesa. «Fiat ha successo perché ha manager efficienti che cercano di capire i dettagli pratici e adeguarsi ai diversi mercati. Ma dinamiche simili si possono vedere anche nella stessa Cina: c’ è stata un’ ondata di scioperi, i salari nelle fabbriche sono aumentati, tutte cose che credevamo non potessero accadere. E ora anche i cinesi capiscono che devono muoversi verso produzioni a maggiore valore aggiunto. Alcune attività di bassa gamma vanno in altre parti della Repubblica popolare o magari anche fuori. Ora per esempio stiamo lavorando con i cinesi per spostare alcuni impianti manifatturieri a basso valore aggiunto in Africa sub-sahariana. Il cambiamento crea sempre opportunità per chi tiene la mente aperta, anticipare i trend è sempre parte della sfida. I migliori uomini di affari sono quelli che lo capiscono prima e si adeguano».
Federico Fubini