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 2010  agosto 29 Domenica calendario

BEL RENE’, ULTIMO DELITTO DI UN UOMO STANCO

Il fiore del male ormai è appassito. Si vede, e si legge. Una volta posato il libro viene in mente il crepuscolo. Renato Vallanzasca è un uomo stanco. «L’ atteggiamento da sempre sicuro di sé, autoreferenziale e apparentemente invincibile, pare vacillare sotto il peso degli anni e del deterioramento fisico, difficile per lui da accettare ma costituente la base di realtà su cui costruire presente e futuro». Questo impietoso passaggio della relazione stilata dagli operatori del carcere di Bollate costituisce anche una possibile sintesi de L’ ultima fuga (Baldini&Castoldi, 368 pagine, 18 euro, in libreria dal 31 agosto), scritto dall’ ex bandito più famoso d’ Italia con Leonardo Coen. Un congedo, la presa d’ atto definitiva che nulla resiste alle scosse del tempo, neppure il presunto mito nato intorno alla figura dell’ ex re della Comasina - definizione che il diretto interessato non ha mai gradito - e alla sua parabola criminale, destinato ad essere rivissuto attraverso le immagini del film di Michele Placido, uno degli eventi più attesi e discussi del Festival di Venezia. Vallanzasca, riveduto e corretto. Quattro ergastoli e 260 anni di carcere, quattro sequestri di persona, innumerevoli rapine, scontri a fuoco, evasioni, sommosse carcerarie, sei omicidi. Anzi sette. All’ elenco va aggiunto anche quello di Massimo Loi, un ragazzo di vent’ anni che faceva parte della sua banda. Aveva sgarrato. Durante una rapina a Como aveva chiamato il bandito con il suo nome di battesimo. Si era fatto dare una Maserati da un concessionario di lusso sfruttando il nome del capo, e lo stesso aveva fatto con una partita di droga acquistata dai clan calabresi. Soprattutto, aveva fatto da autista a due altri compari che avevano picchiato i genitori di Vallanzasca e devastato il loro appartamento per farsi consegnare cento milioni di lire. I conti vengono regolati durante la rivolta nel carcere di Novara, dove lo «sbarbato» e il capo sono entrambi detenuti. Un massacro. Due coltellate al petto, un’ altra allo stomaco, l’ ultima per squarciare la gola. Il corpo verrà poi smembrato da altri detenuti, così almeno sostiene Vallanzasca, che per la prima volta si attribuisce la paternità del delitto, l’ esecuzione materiale, che finora era sempre stata rivendicata da Vincenzo Andraous, altro ex della sua banda, il killer delle carceri. Nel 2005, durante una intervista a Giovanni Minoli, si era lasciato scappare una mezza ammissione. Nel 2006, intervista a L’ Europeo, se l’ era poi rimangiata. Questa volta se ne fa carico, e la versione dovrebbe essere definitiva. È stato infine lui a «intrattenersi brutalmente» con Loi, il virgolettato è suo. Sono passati dieci anni da Il fiore del male (Marco Tropea Editore), l’ autobiografia scritta con Carlo Bonini, alla quale si ispira il film con Kim Rossi Stuart nei panni del fu bel Renè. E dieci anni sono lunghi da passare, soprattutto se vissuti dentro o intorno a un carcere. L’ ultima fuga sceglie di raccontare questo Vallanzasca, immerso in un tempo e in una città, Milano, che non sono più suoi, non gli appartengono. Mostra le rughe dell’ improprio mito costruito intorno alla figura del bandito. Racconta l’ ex re della mala, oggi. Lui si fa rubare la bicicletta, «come uno sbarbato» direbbe lui, e per questo viene cazziato dalla moglie. Arriva sul set de Gli angeli del male e per un riflesso pavloviano capisce come sarebbe facile allontanarsi, sparire, evadere per l’ ultima volta. Ma non ci sono più le gambe, le forze, e nemmeno la volontà. Vallanzasca sa bene che il suo tempo è passato, restano solo i rimpianti. E lascia intendere di non aver gradito la cristallizzazione cinematografica del suo passato fatta da Placido. «Non mi libererò mai da questo marchio fatto di sangue e sesso. Rischio di passare per uno psicopatico, che non riesce arrivare alla sera se non ha fatto una rapina o peggio, e non riesce a far l’ alba se non si è fatto almeno una trombata». Ricordare è il lusso dei detenuti, ricordare e immalinconirsi. Coen ripercorre il passato di Vallanzasca alla luce di quel che è diventato ora. Un pensionato che entra ed esce dal carcere, al quale rubano la bicicletta. L’ ultima fuga è quasi un antidoto alla fascinazione del male, alla tentazione, sempre presente con le figure negative, di edificare un mito su gesta ben poco nobili. Leggerlo in controluce al film potrebbe essere un esercizio salutare. L’ ex bandito non si è mai pentito, ma questo non significa rivendicare, anzi. «Non c’ è nessuna Damasco sul mio cammino, ma la semplice constatazione di un fallimento. Di scelte errate. Non rifarei la vita che ho fatto. Ho procurato troppi dolori a me, ai miei familiari, a quelli che non conosco. Ho commesso errori che mi bruciano. A cui non c’ è rimedio. Il mio sogno è quello di poter essere utile, in questo spicchio di fine esistenza. Di lavorare con i ragazzi difficili. Non so se ne avrò la possibilità: per ora mi è capitato di incontrarli qualche volta. A loro ho sempre detto: non imitatemi. Nessuno meglio di me sa dissacrare i miti. A partire dal mio. Che mito è quello di uno che ha trascorso due terzi della propria vita in galera?» Vallanzasca rinnega il mito di se stesso, ma al tempo stesso non si sottrae alla sua celebrazione. E così, dopo la confessione su Loi, c’ è la rievocazione della ligèra, del suo Sessantotto, del milieu milanese, e i giudizi sugli altri grandi criminali dell’ epoca. Raffaele Cutolo? «Un uomo degno del massimo rispetto perché è uno dei pochi che con tutta la galera che si ritrova sulle spalle ha ancora dignità da vendere». Angelo Epaminonda, il tebano? «Un cumulo di monnezza. A me ricordava solo un cameriere che faceva e serviva panini in bisca». A seguire, in coda, una Guida Michelin delle patrie galere, redatta in prima persona. La quotidianità e i pensieri di un detenuto celebre che lavora in una cooperativa sociale e continua a sperare nella libertà vigilata sono forse la parte più importante e interessante del libro. Ma la merce da vendere è ancora la solita, antiquariato del crimine risalente a quegli anni folli e stupidi dove anche lui - ora - fatica a vedere il romanticismo. L’ ex bandito lo sa, e si presta al gioco. Ogni volta che si immerge nell’ amarcord, il tono di Vallanzasca cambia. E quasi ad esorcizzare il pensionato che si fa fregare la bicicletta torna fuori il bel Renè, sfrontato e guascone. Tutti abbiamo una parte da recitare, la sua è quella. Senza il male, certi fiori perdono il loro fascino.
Marco Imarisio