il Fatto Quotidiano 29/8/2010, 29 agosto 2010
LA RABBIA DEL “CAMILLINO” TRADITO
Settimo capitolo. Pochi giorni prima di quella ultima sera di agosto, in cui lo sconforto sembra vincerlo, poco prima di quella notte in cui tutto si risolve nella tragedia del bagno di sangue, Camillino è riuscito per l’ultima volta a sentirsi altero e invincibile come un tempo. È stato quando sotto casa, di fronte agli occhi esterrefatti del domestico, con la sua Rover 3000 ha investito a ripetizione, fino a demolirla, la macchina di un vicino che gli ostruiva un passaggio. Non un raptus: un lavoro metodico. Quando poi è andato dal proprietario, che era esterrefatto, con il blocchetto degli assegni in mano per rifonderlo del danno, per pagare senza batter ciglio, si è sentito per l’ultima volta più forte di tutto e di tutti, più lucido nel perseguire i suoi fini. Si è sentito “Migliore”. Era una cosa di cui aveva bisogno. Quando era più giovane, c’era stata persino una volta in cui era finito nelle cronache e nelle grida di Pasquino per aver picchiato a sangue un domestico, reo di averlo svegliato troppo presto:
È accaduto un bel mattino/
Che il marchese di Soncino/
Dà la sveglia in senso lato /
A qualcun che lo ha svegliato.
Ma adesso non è così, non può più essere così. Non è così perché lui inizia a sentirsi stanco, ferito. È perché è successo qualcosa talmente grave che non si riesce più ad acquietare sventolando la matrice di un libretto di assegni. Non è più come la mattina in cui ha fatto stendere Anna su una spiaggia del litorale romano, quando le ha detto il momento in cui avrebbe dovuto farsi il bagno, quello in cui tornare sulla spiaggia e rotolarsi nella sabbia, non è più come quando lei ha accettato di farsi leccare via ogni grano dalla lingua di due “soldatini” (così li definisce lui nel diario) ingaggiati mentre passeggiavano, e il marchese, impazzito di piacere, sentiva un delizioso torpore diffondersi nelle zone erogene.
NON È PIÙ come quando gli bastava riprendere quelle foto in bianco e nero dall’archivio per tornare a riassaporare tutte le gioie della sua conquista. E anche Anna, a volte, mostra di essere stanca delle sue impennate di carattere e dei suoi capricci. Si ribella, e di questo lui non riesce a capacitarsi. Una sera è arrivata al punto di sfogarsi – la marchesa – persino con i domestici: “È tanto meglio mangiare pane e cipolla e vivere come una pezzente dalle mie parti – ha detto sentendosi umiliata da lui – piuttosto che accettare le regole di questo mondo corrotto, abitato solo da gente che fa venire la nausea. Se continua così, un giorno o l’altro, pianto tutto e torno al mio paese”. Ad Amorosi, provincia di Benevento? Ma figurarsi. È impossibile, e anche lei lo sa bene. Così il loro instabile equilibrio, inizia a sgretolarsi progressivamente, e poi va in pezzi. È il sesso, paradossalmente, il legame più forte che resiste fra di loro, l’ultimo legame che salta. La vita diventa noia, la perversione diventa vita. Annota Anna in una pagina del suo diario: “I cruciverba sono una grande distrazione per Camillo. Come occupare il tempo, altrimenti, a Zannone, nell’isola di nostra proprietà, dove passiamo quattro mesi alll’anno? Il giorno spariamo agli uccelli , ma la sera?”. Già, la sera. Per intanto questa sera, a Roma – 30 agosto 1970 – il marchese è preso da una smania quasi febbrile: non annota frasi che alludono al suo erotismo, non scrive giocoso degli avieri che ha abbordato sulla riva (godendo mentre poco dopo i due penetravano Anna sotto i suoi occhi, e annotandolo come al solito nel suo diario). Questa sera il marchese torna di nuovo ad essere Camillino: vulnerabile, infantile, decadente e geloso. E allora prende la penna e scrive: “Vorrei essere morto e sepolto. Che schifo! Che piccineria! Il voltastomaco, ecco quello che mi ha dato Anna”. Davanti agli occhi Camillino, si vede passare l’immagine di un volto che conosce bene, quello del capellone che si è messo a corteggiare sua moglie. Quello del ragazzo che all’inizio era entrato come tanti altri, su suo invito, nel triangolo monco. Ma che poi ha provato a cambiare geometria. Massimo è il primo che ha chiuso il poligono rompendo il feeling di complicità intima e innescando così un cortocircuito di sentimenti scomposti. Gli altri erano suoi alleati: lui è un suo nemico. Dentro gli occhi di Anna Camillino vede ondeggiare l’ombra del ciuffo di Massimo Minorenti l’uomo di cui sua moglie dice di essere innamorata. E allora una marea di amarezza gli risale dal fondo delle budella e tracima sui margini dell’agenda con la copertina verde: “Solo lei, con quella mentalità da minimissima borghese, poteva farmi una cosa così bugiardamente losca. Tutto quello in cui credevo è crollato. Che delusione”. Anna non è più la sua Dea inarrivabile ma – summa iniuria – una "minimissima boghese”. Il marchese si è sentito padrone finché ha scelto lui le comparse, le ha pagate di tasca sua, fin quando ha detto loro quello che dovevano fare e si è appagato nel veder eseguire il suo spartito. Lui non si è mai chiesto perché godeva nel vedere sua moglie incrociare il proprio corpo con quello di un estraneo. Mai. Ha provato il morso dell’eccitazione nel programmare, nel filmare, nel fotografare. Quando ha scattato le foto con lei che appoggia le proprie mammelle nel corrimano della sua barca e guarda in camera con un sorriso appena dischiuso ed incisivi bianchi da coniglietta, non si è chiesto perché lui goda sempre della propria assenza e si ecciti della presenza altrui. Quando ha fotografato per tre rullini Anna nuda a gambe spalancate, non si è chiesto perché sostituisca regolarmente al possesso della carne quello dell’immagine. Quando si eccita a vedere l’immagine di due uomini che vengono insieme addosso a sua moglie, non si chiede invece perché lui abbia sempre più difficoltà a venire da solo, con lei. I sessuologi diranno poi, dopo il delitto, che in questo rituale si cela una latente nota di omosessualità repressa e inconfessata. Diranno che il marchese è eccitato per gli accoppiamenti della moglie perché Camillino rivede in lei e nelle donne che ama, l’immagine della madre. E poiché quella donna per lui – anche se trasferita su un piano erotico – è come se fosse l’incarnazione di sua madre, ovviamente non può toccarla senza avvertire il tabù dell’incesto. Lui, da solo, il perimetro dei lati di quel poligono imperfetto che non si chiude mai, non lo ripercorrerà mai. Non può farlo. Non può sigillare il circuito perché lui non vede un poligono, e nemmeno un triangolo: vede lei e se stesso solo attraverso gli amanti occasionali. Ma l’interposizione – erotica e psicologica – può funzionare solo finché dall’altro lato del poligono imperfetto ci sono degli anonimi, delle comparse. Gli avieri, i soldatini, le coppie scambiste agganciate con le lettere su settimanali per soli uomini come Men. Quella sera, però, c’è qualcun altro. Quella sera Camillino vede solo una sagoma che gli è nota, vede il ciuffo di Massimo Minorenti e scopre per la prima volta il morso di una bestia che fino ad allora incredibilmente non aveva mai incontrato: La gelosia. Ed ecco il suo grido di disperazione: “Dico! Perdere la testa per un ragazzo assolutamente insignificante come Massimo, il quale, se non avesse i capelli che lo ‘camuffano’ – scrive amareggiato nell’agenda verde – sarebbe proprio zero”. Dieci giorni dopo il Marchese si spinge ancora oltre: “Anna è andata a letto per riposare, invece entro in camera da letto e la trovo che parla al telefono, dopo che ha già parlato al mattino, con quel ragazzo con la testa gonfia di capelli. Ma perché deve fare tutto di nascosto da me?”. Quella sera, Camillino, tocca il fondo della sua parabola di sofferenza, ma allo stesso tempo decide che si vuol far prestare il fucile dal marchese. Pensa di usarlo per farla finita, estinguendo, insieme al suo nome, la sua sofferenza. Quella sera quando il circuito va in tilt per sempre, i pallettoni del fucile Browning non sono uno strumento di offesa, ma l’unico modo che Camillino pensa di avere per recuperare l’intimità furtiva del legame sensuale che lo aveva unito per tanti anni a sua moglie. Quella sera le cartucce da caccia sono un disperato atto d’amore. Togliersi la vita, questa è l’idea che lo guida, mentre fa correre per l’ultima volta il pennino d’oro sulla carta, raccontando quello che gli passa per la testa. Ma quella sera Camillino dimentica che il marchese non è tipo da accettare che la grandiosità tragica dello spettacolo che ha allestito e replicato per una vita, che il finale di dramma del triangolo morboso, non può essere celebrata e conclusa dal rito rinunciatario di un suicidio. Il Marchese vuole qualcosa di più. E, in un modo o nell’altro, riuscirà ad averlo.
Ottavo capitolo
ROMA 1972 Annamaria non se ne è quasi accorta. Ma la dichiarazione che il suo avvocato ha consegnato all’erario è diventata il nodo scorsoio con cui viene presa al laccio la sua eredità. I beni che l’eredità dei Casati Stampa le ha consegnato sono inestimabili. Ma lei non ne conosce l’entità, sa quello che le dicono e che le scrivono. Sa, per esempio, che deve al fisco 1.278.520.000 lire. Una cifra che se la devi pagare ti pare enorme. E che è enorme, visto che lei non ha ancora realizzato di essere una delle donne più ricche d’Italia. Ma Anna non ha alle sue spalle quattro quarti di nobiltà e dei consiglieri che possano proteggerla. Anna adesso è figlia di un duplice omicido, e di una ballerina, ha perso il padre e la matrigna, vuole fuggire via dall’Italia, rifarsi una vita. È diventata maggiorenne, nel 1972, ma volontariamente decide di riaffidarsi alla sua coppia tutorale: il senatore Bergamasco e l’avvocato Previti. Per pagare quel miliardo, i suoi protettori le indicano una strada semplice: vendere quell’antico villone di Arcore, senza valore, quella palazzina cadente che – secondo le stime che loro stessi le consegnano – vale più o meno cinquecento milioni di lire. Non basta per quietare il fisco. E allora bisogna disfarsi di qualche altro terreno privo di rilevanza. Ci sono 257 ettari di terra, a Cusago, un bel fazzolettone di terreni agricoli. Le sottopongono un accordo preliminare, già compilato in ogni dettaglio, con una società immobiliare di Milano, che si chiama Edilnord. Che poi è strana davvero, questa società: è intestata a un signore che si chiama Mauro Borsani, ed è amministrata da un altro signore che si chiama Giorgio Dall’Oglio, che passeranno negli annali dell’azienda come meteore nel cielo. L’azienda è emanazione di una finanziaria svizzera che ha un nome impronunciabile: si chiama Aktiengesellschaft fur immobilienlagen in Residenzzenntren ed è basata a Lugano. Ma nella vita, a volte, basta cambiare l’angolo di osservazione per capire tutto. Se invece di guardare le carte da bollo e i contratti cerchi negli alberi genealogici trovi la chiave. Se provi a immaginare che cosa unisce Mario Borsani e Giorgio Dall’Oglio, oltre al lavoro, scopri che sono parenti. Non tra di loro, però. Se unisci il filo delle affinità familiari, scopri che Borsani e Dall’Oglio sono lo zio e il cognato di un giovane imprenditore che risponde al nome di Silvio Berlusconi. Che poi l’ultima stranezza è questa. Silvio Berlusconi non ha ruoli dirigenti, apparentemente, nella Edilnord. Ma quando dovrà chiudere la trattativa per i terreni e per la villa di Arcore, L’avvocato Previti scriverà direttamente a lui: ma Cesare è perspicace, si sa.
IL CONTRATTO che si chiude tra la giovane ereditiera e la finanziaria di Lugano con il nome strano, i parenti nelle gerenze societarie, e il giovane Silvio nel ruolo di guida carismatica lo racconterà, tanti anni dopo, un giornalista. Si chiama Giovanni Ruggeri, e nella sua biografia di Silvio Berlusconi racconta: “Il pagamento della somma concordata – Lire 1.864.100.000 lire – avverrà in cinque rate annue successive, senza interessi, a partire dalla stipulazione dell’ultimo contratto di compravendita, ma la consegna dell’intero fondo e dei fabbricati soprastanti avverrà contestualmente alla stipulazione del primo contratto di compravendita. Poi – aggiunge Ruggeri – arriva la clausola più importante: la venditrice conferisce mandato alla Edilnord di “predisporre un progetto planivolumetrico o un piano di lottizzazione per l’utilizzazione edificatoria” dei terreni e “il primo contratto di compravendita verrà stipulato entro tre mesi dall’intervenuta esecutività della delibera di autorizzazione alla lottizzazione e dall’approvazione del piano volumetrico e del piano di lottizzazione”. Ti chiedi, cosa significa esattamente? Ruggeri lo spiega così: “La Edilnord acquisterà i terreni solo dopo che essi siano divenuti edificabili secondo i suoi piani speculativi. È un accordo preliminare a tutto vantaggio dell’acquirente: facendo balenare un pagamento di quasi due miliardi, la Edilnord vincola di fatto a tempo indeterminato le vastissime proprietà di Cussago senza corrispondere alla giovane ereditiera nemmeno una lira”. Si è invertita la legge aurea della compravendita. La Edilnord si piglia il cammello, prima ancora di pagare dollaro. Quarant’anni prima della cucina Scavolini di Gianfranco Fini.
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